lunedì 4 novembre 2024

CIELO D'ALCAMO e DARIO FO (V parte)

 

E pena pecuniaria per testimoni che non accorressero

1)    Dunque sarebbero bastati dei testimoni che avessero trovato il reo in atteggiamento inequivocabile (in ipsis venereis actibus invenerint accusatos) per legittimare una giustizia rapida e sommaria (nobis etiam inconsultis, capitali pene subiaceant); e i testimoni dovevano accorrere, perché anche per loro era prevista una pena (pecuniaria) nel caso che non portassero soccorso a una donna che invocava aiuto. Sentite il testo della legge:

Vogliamo che chiunque abbia udito gridare una donna, a cui sia fatta violenza, sia veloce a correre e a soccorrerla. Se non lo farà, il nostro tribunale gli imporrà una multa di quattro augustali, come pena per la sua dannosa inerzia. E nessuno per evitare la pena potrà fingere di non avere udito le grida, nessuno che si sia trovato sotto lo stesso tetto o in luogo da cui abbia potuto udire la voce, a meno che non si dimostri che è sordo o, senza inganno, zoppo o altrimenti deficiente o che dormiva nello stesso momento delle grida. 

Non buoni gli argomenti di Fo sul carattere popolare del testo

2)    Si deve concludere che l’assunto di Fo (l’autore del Contrasto è un giullare, vera e propria voce e coscienza del popolo, altrimenti costretto al silenzio) è infondato? A me pare ovvio concludere che certamente non sono buoni gli argomenti usati dall’autore-attore del Mistero buffo: né da quelle congetture sul nome né dalle considerazioni sulla defensa si può dedurre il carattere popolare del nostro testo e, soprattutto, non se ne può dedurre l’intenzione di denunciare i soprusi dei potenti ai danni del popolo.

3)    Ed anche: il fatto che i due protagonisti del Contrasto siano dei popolani e che tutta la vicenda abbia un carattere schiettamente popolaresco (si pensi alla conclusione, così poco "cortese": "A lo letto ne gimo a la bon’ora"), nulla dice sull’autore e sul pubblico destinatario del componimento: non è certo anomalo, nella storia della letteratura, che un autore colto si diverta a rappresentare, per un pubblico altrettanto colto, personaggi, ambienti e situazioni popolari (si pensi, per fare un esempio famoso, al poemetto rinascimentale Nencia da Barberino).

Il testo è linguisticamente ambiguo

4)    La questione, piuttosto, andrà affrontata con gli strumenti dell’analisi linguistica. E allora bisognerà riconoscere, onestamente, che quel testo è linguisticamente ambiguo, non ci sono elementi tali che possano far decidere definitivamente per una tesi piuttosto che per l’altra. E’ vero che Dante, nel De vulgari eloquentia, cita il Contrasto come esempio di un volgare siciliano proprio non degli scrittori colti ma degli abitanti di media condizione (secundum quod prodit a terrigenis mediocribus)[1]; ma cita non a caso il terzo verso della prima strofa ("tragemi d’este focora, se t’este a boluntate"), perché evidentemente si rendeva conto che i primi due ("Rosa fresca aulentissima, c’apari inver la state, / le donne ti disiano, pulzell’ e maritate") erano esempio di una lingua colta, non certo dialettale.

Un lessico colto si alterna con un lessico popolare

5)    Questa sorta di dualismo linguistico è rintracciabile nell’intero componimento: parole ed espressioni che appartengono alla lirica colta (si pensi solo alla sovrabbondanza di francesismi e provenzalismi) si mescolano con parole ed espressioni chiaramente popolari, sia per crudezza realistica sia per i tratti marcatamente dialettali.

Dualismo anche di espressioni cortesi e anti-cortesi

6)    A me piace far notare come l’amante alterni formule, non solo linguisticamente ma anche concettualmente, cortesi, in quanto rimandano alla dottrina del vassallaggio d’amore, che vuole l’esaltazione della dama e la sottomissione del cavaliere (5 "madonna mia", 65 "sovrana di meve te prese"), ad altre che contraddicono seccamente i principi di quella dottrina, in quanto rovesciano la posizione dell’uomo rispetto alla donna (32-33 "l’omo... l’ha in sua podesta", 55 "besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino").

L’autore può essere un giullare

7)    Ma dunque che cosa possiamo concludere a proposito dell’autore e del significato del componimento? Gli elementi colti presenti nel testo non impediscono di pensare che l’autore sia un giullare: un "mestierante" di poesia, quale era il giullare, per quanto incolto, poteva benissimo avere orecchiato i modi della lirica aulica. Certamente però non ci sono nel testo elementi che inducano a vedervi una denuncia delle malefatte del potere, dei soprusi dei potenti ai danni del popolo; piuttosto si tratterebbe di una parodia dei modi della lirica “alta”, una lirica che, fiorente proprio al tempo – e proprio alla corte – di Federico II, aveva importato in Sicilia temi e modi della poesia trobadorica, con la sua idealizzazione dell’amore inteso come un sentimento nobile e nobilitante; farne la parodia vuol dire mostrare come dietro quella idealizzazione, dietro le raffinate espressioni del cosiddetto “amor cortese”, si nasconda un obiettivo assolutamente materiale: “a lo letto ne gimo alla bon’ora!”. Una parodia per il divertimento del pubblico della piazza.

L’autore è colto

8)    Tuttavia, secondo la maggioranza degli studiosi, proprio il dualismo di cui si è detto dimostrerebbe la letterarietà del componimento, e quindi anche il carattere colto dell’autore: costui conosce gli stilemi "cortesi", conosce lessico ed espressioni delle lingue francese e provenzale, ovvero lessico ed espressioni proprie di una letteratura “alta”, è abile nell’uso di registri linguistici diversi, padroneggia sapientemente la materia poetica e la tecnica compositiva, a cominciare dalla metrica.

9)    Infatti la struttura metrica della strofa non è proprio semplice, Sono strofe di cinque versi, costruite su due rime, una rima per i primi tre e una per i secondi due: i primi tre versi sono alessandrini (ovvero di 14 sillabe, divisi in due settenari, il primo dei quali termina sempre con una parola sdrucciola, cioè con l’accento sulla terzultima sillaba), i secondi due sono endecasillabi. E’ usata inoltre la tecnica, di origine provenzale, delle cosiddette coblas capfinidas, ovvero ogni strofa comincia riprendendo le parole o il concetto con cui finisce la strofa precedente.

10)                      Tutti questi elementi inducono a pensare che l’autore appartenga ad ambienti culturalmente e socialmente elevati e che solo parodisticamente, per far divertire un pubblico colto, si compiacccia di usare volgarità di lingua e di pensiero. In altre parole, non è un giullare che fa la parodia della lirica “alta”, ma un autore colto che fa la parodia dei modi popolani. A me pare che questa opinione sia convincente.



[1] Notare che anche qui Dario Fo fraintende, in quanto ritiene che qui Dante “più o meno esplicitamente” dica che “certamente l’autore è un erudito, un colto”.

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