Leggiamo le prime strofe (14 su 32)
del testo
1)
Per entrare nel merito, leggo le prime
strofe del testo, quindi, a seguire, riporterò il commento di Fo:
«Rosa
fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state, (espressione aulica)
le donne ti disiano, pulzell’ e maritate: (sull’interpretazione di questo verso
torneremo)
tràgemi d’este focora, se t’este a
bolontate; (espressione popolaresca)
per te non ajo
abento notte e dia,
penzando pur di
voi, madonna mia». (espressione tipica del vassallaggio d’amore)
«Se di meve
trabàgliti, follia lo ti fa fare.
Lo mar potresti
arompere, a venti asemenare,
l’abere d’esto
secolo tut[t]o quanto asembrare: (francesismo)
avere me non
pòteri a esto monno;
avanti li
cavelli m’aritonno».
«Se li cavelli
artón[n]iti, avanti foss’io morto,
ca’n is[s]i [sí]
mi pèrdera lo solacc[i]o e ’l diporto.
(binomio tipico della poesia trobadorica)
Quando ci passo
e véjoti, rosa fresca de l’orto,
bono conforto
dónimi tut[t]ore:
poniamo che
s’ajúnga il nostro amore».
«Che ’l nostro
amore ajúngasi, non boglio m’atalenti:
se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti, (meridionalismo che torna altre volte)
guarda non
t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti.
Como ti seppe
bona la venuta,
consiglio che ti
guardi a la partuta».
«Se i tuoi parenti
trova[n]mi, e che mi pozzon fare?
Una difensa mèt[t]oci di dumili’ agostari:
non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha
’n Bari. (meridionalismo)
Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!
Intendi, bella,
quel che ti dico eo?»
La difensa o defensa è un istituto di cui si parla nelle cosiddette Costituzioni melfitane, che sono un
insieme di leggi promulgate da Federico II nel 1231. L’agostario o augustale è una moneta d’oro coniata dallo stesso
imperatore nello stesso anno. Quindi questo ci dice che il testo che stiamo leggendo è posteriore al 1231, ma anche che
è anteriore al 1250, che è l’anno della morte dell’imperatore,
mentre qui si dice “viva l’imperatore”,
dunque l’imperatore è ancora in vita. Continuo la lettura:
«Tu me no lasci
vivere né sera né maitino. (provenzalismo)
Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino. (monete di Bisanzio e pregiato oro orientale)
Se tanto aver
donàssemi quanto ha lo Saladino, (leggendario sultano di Siria ed Egitto)
e per ajunta
quant’ha lo soldano, (d’Egitto)
toc[c]are me non
pòteri a la mano».
«Molte sono le femine c’hanno dura la testa, (espressione non cortese)
e l’omo con
parabole l’adímina e amonesta:
(le domina e le persuade; provenzalismo)
tanto intorno procazzala fin che·ll’ha in sua podesta. (la
incalza; espressioni non cortesi)
Femina d’omo non
si può tenere:
guàrdati, bella,
pur de ripentere».
«K’eo ne [pur
ri]pentésseme? davanti foss’io aucisa
ca nulla bona
femina per me fosse ripresa!
[A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa. (tempo fa: francesismo)
Aquístati
riposa, canzonieri: (canterino, cantastorie: francesismo)
le tue parole a
me non piac[c]ion gueri». (per niente: francesismo)
«Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core, (dolori)
e solo
purpenzànnome la dia quanno vo fore!
Femina d’esto secolo
tanto non amai ancore
quant’amo teve,
rosa invidïata:
ben credo che mi
fosti distinata».
«Se distinata
fósseti, caderia de l’altezze,
ché male messe
fòrano in teve mie bellezze.
Se tut[t]o
adiveníssemi, tagliàrami le trezze,
e consore
m’arenno a una magione,
avanti che
m’artoc[c]hi ’n la persone».
«Se tu consore
arènneti, donna col viso cleri, (tipica formula trobadorica)
a lo mostero vènoci e rènnomi confleri: (francesismi)
per tanta prova
vencerti fàralo volontieri.
Conteco stao la
sera e lo maitino: (provenzalismo)
besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino». (espressione non cortese)
«Boimè tapina
misera, com’ao reo distinato! (destino crudele)
Geso Cristo
l’altissimo del tut[t]o m’è airato:
concepístimi a
abàttare in omo blestiemato.
Cerca la terra ch’este
gran[n]e assai,
chiú bella donna
di me troverai».
«Cercat’ajo
Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia,
Puglia,
Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,
Lamagna e
Babilonïa [e] tut[t]a Barberia:
donna non [ci] trovai tanto cortese,
per che sovrana di meve te prese». (espressioni tipiche del vassallaggio d’amore)
«Poi tanto
trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri
che tu vadi
adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri.
Se dare mi ti
degnano, menami a lo mosteri, (francesismi)
e sposami
davanti da la jente;
e poi farò le
tuo comannamente».
Il
commento di Fo
2)
Ed ecco il commento di Dario Fo:
Per
quanto riguarda la nostra storia, o meglio la storia del nostro popolo, uno dei
testi primi del teatro comico-grottesco, satirico, è Rosa fresca aulentissima di
Ciullo (o Cielo) d'Alcamo. Ebbene, perché noi vogliamo parlare di questo
testo? Perché è il testo più mistificato
che si conosca nella storia della nostra letteratura, in quanto mistificato
è sempre stato il modo di presentarcelo. Al liceo, al ginnasio, quando ci propongono
quest'opera, ci fanno la più grossa truffa che si sia mai messa in opera in
tutta la storia della scuola. Prima di tutto ci fanno credere che sia un testo scritto da un autore aristocratico,
che, pur usando il volgare, ha voluto dimostrare d'essere talmente dotato da
tramutare «il fango in oro». È riuscito cioè a scrivere un'opera d'arte:
grazie alla grazia di cui solo un poeta aristocratico come lui poteva essere
intriso. Tanto da far giungere un tema
così triviale, cosi rozzo come un dialogo «d'amore carnale», a livelli
straordinari di poesia «culta», propria della «classe superiore»! Ecco,
dentro questo sforzo di farci passare quest'opera come momento ispirato di un
autore aristocratico, ci è capitato dentro quasi tutto, diciamo tutte le
capriole e i salti mortali dei sacri autori borghesi dei testi scolastici, dal
De Sanctis al D'Ovidio. Dirò che il primo a fare un gioco di truffa è stato Dante Alighieri. Infatti, più o meno
esplicitamente, nel suo De Vulgari Eloquentia, dice con una
certa sufficienza che «... d'accordo, c'è pure qualche crudezza in questo
"contrasto", qualche rozzezza, ma certamente l'autore è un erudito,
un colto» (per la verità Dante non ha detto questo, ha detto che il volgare del
Contrasto è proprio non degli scrittori colti, ma degli abitanti di media
condizione: secundum quod prodit a terrigenis mediocribus). Non
parliamo poi di cosa hanno detto gli studiosi verso il Settecento e l'Ottocento
a proposito dell'origine «culta» di questo testo; il massimo è successo
naturalmente sotto il fascismo, ma anche poco prima non si scherzava. Lo stesso
Croce, Benedetto Croce, il filosofo
liberale, dice che indubbiamente si tratta di un autore aristocratico poiché la
poesia del popolo è un fatto meccanico, cioè a dire « è un fatto di ripetizione
pedestre». Il popolo, si sa, non è capace di creare, di elevarsi al di
sopra di quello che è la banalità, la brutalità, il volgare, e quindi riesce al
massimo a copiare «meccanicamente»; da qui il senso di «meccanico». Solo
l'autore aristocratico, colto e evoluto, ha la possibilità di sviluppare
artisticamente un tema qualsivoglia. Il popolo, bue e becero, al massimo riesce
a fare delle imitazioni. Basta, tutto lì.
La tesi di Fo e le tre questioni
3)
Fo sostiene, al contrario, il carattere assolutamente popolare del
testo e contesta,
come censorie e moralistiche, le
interpretazioni della critica tradizionale (e quindi dei manuali scolastici).
Entrambi i personaggi che dialogano nel Contrasto
sono popolani che millantano, in
particolare lei, una loro condizione sociale superiore. Lui è un giullare, lei è probabilmente
la servetta in una casa padronale.
4)
L’argomentare di Fo si incentra
soprattutto su tre questioni: la questione del nome dell’autore
del Contrasto, la questione del secondo verso della prima
strofa, e infine la più complessa e significativa questione della defensa,
evocata dall’amante alla quinta strofa.
La prima questione: il nome
dell’autore
5)
Cominciamo dall’argomento del nome.
Riporto il passo in questione:
Questa
preoccupazione di correggere la verità nasce già al momento di decifrare il
soprannome dell'autore; infatti viene quasi sempre citato nei testi di scuola non come Ciullo d'Alcamo, ma come
Cielo d'Alcamo. Attenzione, i lombardi sanno cosa significhi il termine
«ciullo»; senza voler fare della scurrilità, «ciullo» è il sesso maschile. E
notate che anche in Sicilia m'è capitato, ad Alcamo, di chiedere il significato
di «ciullo»... ah ah ah... giù tutti a ridere! Ad ogni modo, tornando alla
scuola, vi rendete conto che questo termine deve essere subito modificato,
medicato, portato via, e naturalmente il professore dice; «C'è un errore».
Infatti noti ricercatori hanno fatto carte false per indicare un'altra lettura.
Non potevano accettare un soprannome del
genere, altrimenti si tratterebbe indubbiamente di un giullare, in quanto quasi
tutti i giullari hanno soprannomi piuttosto pesantucci…. Dunque, non si può
dire «ciullo». Non si può, in una scuola come la nostra, dove l'ipocrisia e
la morbosità cominciano fin da quando vai all'asilo. Io sono stato all'asilo,
da piccolo s'intende, e mi ricordo che quando succedeva che una bambina vedeva
un bambino che faceva pipì diceva: «Oh, guarda!... suora... cos'ha quel bambino
lì? » «Una brutta malattia, - rispondeva la maestra, - non guardare... via, via,
fatti il segno della croce! » È la nostra scuola. E dobbiamo capire il dramma
degli insegnanti.
Ma la questione è risolta: il nome “Ciulo”
non esiste
6)
In effetti quella del nome è un’antica e
tormentata questione, ma, per la verità, già felicemente risolta. Essa nasce da un equivoco, un fraintendimento di lettura
della grafia di un filologo del Cinquecento, Angelo Colocci, che è colui
– ed è l’unico – che ci ha tramandato quel nome. Io non sono un esperto
di paleografia, ma basterà guardare la
fotografia del manoscritto, che si ritrova, ad esempio, nella Treccani e si
noterà che la lettera, fraintesa da
alcuni lettori inesperti (o semplicemente disattenti) come una “u”, è
inequivocabilmente una “e” (tant’è che per tutte le “e” del
manoscritto è riconoscibile lo stesso segno grafico). Dunque non Ciulo, ma
Cielo, che sarebbe una forma toscanizzata del siciliano Celi, a sua volta
derivato da Cheli, diminutivo di Michele. La variante Ciulo nasce nel Seicento e non si giustifica se non,
appunto, con una cattiva lettura da parte di altri studiosi (Ubaldini prima e Allacci poi, e il secondo probabilmente influenzato dal primo), che
del resto non ebbero altre fonti che
le carte del Colocci. Tale variante si è poi conservata, ed anzi si è presentata anche nella forma
Ciullo, che è sembrata una derivazione da Vincenzo attraverso il suo
diminutivo Vincenzullo.
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