martedì 5 novembre 2024

CIELO D'ALCAMO e DARIO FO (II parte)

 

Leggiamo le prime strofe (14 su 32) del testo

1)    Per entrare nel merito, leggo le prime strofe del testo, quindi, a seguire, riporterò il commento di Fo:

   «Rosa fresca aulentis[s]ima ch’apari inver’ la state, (espressione aulica)

le donne ti disiano, pulzell’ e maritate: (sull’interpretazione di questo verso torneremo)

tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate; (espressione popolaresca)

per te non ajo abento notte e dia,

penzando pur di voi, madonna mia». (espressione tipica del vassallaggio d’amore)

 

«Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.

Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,

l’abere d’esto secolo tut[t]o quanto asembrare: (francesismo)

avere me non pòteri a esto monno;

avanti li cavelli m’aritonno».

 

«Se li cavelli artón[n]iti, avanti foss’io morto,

ca’n is[s]i [sí] mi pèrdera lo solacc[i]o e ’l diporto. (binomio tipico della poesia trobadorica)

Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l’orto,

bono conforto dónimi tut[t]ore:

poniamo che s’ajúnga il nostro amore».

 

«Che ’l nostro amore ajúngasi, non boglio m’atalenti:

se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti, (meridionalismo che torna altre volte)

guarda non t’ar[i]golgano questi forti cor[r]enti.

Como ti seppe bona la venuta,

consiglio che ti guardi a la partuta».

 

«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare?

Una difensa mèt[t]oci di dumili’ agostari:

non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha ’n Bari. (meridionalismo)

Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!

Intendi, bella, quel che ti dico eo?»

 

La difensa o defensa è un istituto di cui si parla nelle cosiddette Costituzioni melfitane, che sono un insieme di leggi promulgate da Federico II nel 1231. L’agostario o augustale è una moneta d’oro coniata dallo stesso imperatore nello stesso anno. Quindi questo ci dice che il testo che stiamo leggendo è posteriore al 1231, ma anche che è anteriore al 1250, che è l’anno della morte dell’imperatore, mentre qui si dice “viva l’imperatore”, dunque l’imperatore è ancora in vita. Continuo la lettura:

 

«Tu me no lasci vivere né sera né maitino. (provenzalismo)

Donna mi so’ di pèrperi, d’auro massamotino. (monete di Bisanzio e pregiato oro orientale)

Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino, (leggendario sultano di Siria ed Egitto)

e per ajunta quant’ha lo soldano, (d’Egitto)

toc[c]are me non pòteri a la mano».

 

«Molte sono le femine c’hanno dura la testa, (espressione non cortese)

e l’omo con parabole l’adímina e amonesta: (le domina e le persuade; provenzalismo)

tanto intorno procazzala fin che·ll’ha in sua podesta. (la incalza; espressioni non cortesi)

Femina d’omo non si può tenere:

guàrdati, bella, pur de ripentere».

 

«K’eo ne [pur ri]pentésseme? davanti foss’io aucisa

ca nulla bona femina per me fosse ripresa!

[A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa. (tempo fa: francesismo)

Aquístati riposa, canzonieri: (canterino, cantastorie: francesismo)

le tue parole a me non piac[c]ion gueri». (per niente: francesismo)

 

«Quante sono le schiantora che m’ha’ mise a lo core, (dolori)

e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!

Femina d’esto secolo tanto non amai ancore

quant’amo teve, rosa invidïata:

ben credo che mi fosti distinata».

 

«Se distinata fósseti, caderia de l’altezze,

ché male messe fòrano in teve mie bellezze.

Se tut[t]o adiveníssemi, tagliàrami le trezze,

e consore m’arenno a una magione,

avanti che m’artoc[c]hi ’n la persone».

 

«Se tu consore arènneti, donna col viso cleri, (tipica formula trobadorica)

a lo mostero vènoci e rènnomi confleri: (francesismi)

per tanta prova vencerti fàralo volontieri.

Conteco stao la sera e lo maitino: (provenzalismo)

besogn’è ch’io ti tenga al meo dimino». (espressione non cortese)

 

«Boimè tapina misera, com’ao reo distinato! (destino crudele)

Geso Cristo l’altissimo del tut[t]o m’è airato:

concepístimi a abàttare in omo blestiemato.

Cerca la terra ch’este gran[n]e assai,

chiú bella donna di me troverai».

 

«Cercat’ajo Calabr[ï]a, Toscana e Lombardia,

Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,

Lamagna e Babilonïa [e] tut[t]a Barberia:

donna non [ci] trovai tanto cortese,

per che sovrana di meve te prese». (espressioni tipiche del vassallaggio d’amore)

 

«Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[c]ioti meo pregheri

che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri.

Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri, (francesismi)

e sposami davanti da la jente;

e poi farò le tuo comannamente».

 

Il commento di Fo

  

2)    Ed ecco il commento di Dario Fo:

Per quanto riguarda la nostra storia, o meglio la storia del nostro popolo, uno dei testi primi del teatro comico-grottesco, satirico, è Rosa fresca aulentissima di Ciullo (o Cielo) d'Alcamo. Ebbene, perché noi vogliamo parlare di questo testo? Perché è il testo più mistificato che si conosca nella storia della nostra letteratura, in quanto mistificato è sempre stato il modo di presentarcelo. Al liceo, al ginnasio, quando ci propongono quest'opera, ci fanno la più grossa truffa che si sia mai messa in opera in tutta la storia della scuola. Prima di tutto ci fanno credere che sia un testo scritto da un autore aristocratico, che, pur usando il volgare, ha voluto dimostrare d'essere talmente dotato da tramutare «il fango in oro». È riuscito cioè a scrivere un'opera d'arte: grazie alla grazia di cui solo un poeta aristocratico come lui poteva essere intriso. Tanto da far giungere un tema così triviale, cosi rozzo come un dialogo «d'amore carnale», a livelli straordinari di poesia «culta», propria della «classe superiore»! Ecco, dentro questo sforzo di farci passare quest'opera come momento ispirato di un autore aristocratico, ci è capitato dentro quasi tutto, diciamo tutte le capriole e i salti mortali dei sacri autori borghesi dei testi scolastici, dal De Sanctis al D'Ovidio. Dirò che il primo a fare un gioco di truffa è stato Dante Alighieri. Infatti, più o meno esplicitamente, nel suo De Vulgari Eloquentia, dice con una certa sufficienza che «... d'accordo, c'è pure qualche crudezza in questo "contrasto", qualche rozzezza, ma certamente l'autore è un erudito, un colto» (per la verità Dante non ha detto questo, ha detto che il volgare del Contrasto è proprio non degli scrittori colti, ma degli abitanti di media condizione: secundum quod prodit a terrigenis mediocribus). Non parliamo poi di cosa hanno detto gli studiosi verso il Settecento e l'Ottocento a proposito dell'origine «culta» di questo testo; il massimo è successo naturalmente sotto il fascismo, ma anche poco prima non si scherzava. Lo stesso Croce, Benedetto Croce, il filosofo liberale, dice che indubbiamente si tratta di un autore aristocratico poiché la poesia del popolo è un fatto meccanico, cioè a dire « è un fatto di ripetizione pedestre». Il popolo, si sa, non è capace di creare, di elevarsi al di sopra di quello che è la banalità, la brutalità, il volgare, e quindi riesce al massimo a copiare «meccanicamente»; da qui il senso di «meccanico». Solo l'autore aristocratico, colto e evoluto, ha la possibilità di sviluppare artisticamente un tema qualsivoglia. Il popolo, bue e becero, al massimo riesce a fare delle imitazioni. Basta, tutto lì.

La tesi di Fo e le tre questioni

3)    Fo sostiene, al contrario, il carattere assolutamente popolare del testo e contesta, come censorie e moralistiche, le interpretazioni della critica tradizionale (e quindi dei manuali scolastici). Entrambi i personaggi che dialogano nel Contrasto sono popolani che millantano, in particolare lei, una loro condizione sociale superiore. Lui è un giullare, lei è probabilmente la servetta in una casa padronale.

4)    L’argomentare di Fo si incentra soprattutto su tre questioni: la questione del nome dell’autore del Contrasto, la questione del secondo verso della prima strofa, e infine la più complessa e significativa questione della defensa, evocata dall’amante alla quinta strofa.

La prima questione: il nome dell’autore

5)    Cominciamo dall’argomento del nome. Riporto il passo in questione:

Questa preoccupazione di correggere la verità nasce già al momento di decifrare il soprannome dell'autore; infatti viene quasi sempre citato nei testi di scuola non come Ciullo d'Alcamo, ma come Cielo d'Alcamo. Attenzione, i lombardi sanno cosa significhi il termine «ciullo»; senza voler fare della scurrilità, «ciullo» è il sesso maschile. E notate che anche in Sicilia m'è capitato, ad Alcamo, di chiedere il significato di «ciullo»... ah ah ah... giù tutti a ridere! Ad ogni modo, tornando alla scuola, vi rendete conto che questo termine deve essere subito modificato, medicato, portato via, e naturalmente il professore dice; «C'è un errore». Infatti noti ricercatori hanno fatto carte false per indicare un'altra lettura. Non potevano accettare un soprannome del genere, altrimenti si tratterebbe indubbiamente di un giullare, in quanto quasi tutti i giullari hanno soprannomi piuttosto pesantucci…. Dunque, non si può dire «ciullo». Non si può, in una scuola come la nostra, dove l'ipocrisia e la morbosità cominciano fin da quando vai all'asilo. Io sono stato all'asilo, da piccolo s'intende, e mi ricordo che quando succedeva che una bambina vedeva un bambino che faceva pipì diceva: «Oh, guarda!... suora... cos'ha quel bambino lì? » «Una brutta malattia, - rispondeva la maestra, - non guardare... via, via, fatti il segno della croce! » È la nostra scuola. E dobbiamo capire il dramma degli insegnanti.

Ma la questione è risolta: il nome “Ciulo” non esiste

6)    In effetti quella del nome è un’antica e tormentata questione, ma, per la verità, già felicemente risolta. Essa nasce  da un equivoco, un fraintendimento di lettura della grafia di un filologo del Cinquecento, Angelo Colocci, che è colui – ed è l’unico – che ci ha tramandato quel nome. Io non sono un esperto di paleografia, ma basterà guardare la fotografia del manoscritto, che si ritrova, ad esempio, nella Treccani e si noterà che la lettera, fraintesa da alcuni lettori inesperti (o semplicemente disattenti) come una “u”, è inequivocabilmente una “e” (tant’è che per tutte le “e” del manoscritto è riconoscibile lo stesso segno grafico). Dunque non Ciulo, ma Cielo, che sarebbe una forma toscanizzata del siciliano Celi, a sua volta derivato da Cheli, diminutivo di Michele. La variante Ciulo nasce nel Seicento e non si giustifica se non, appunto, con una cattiva lettura da parte di altri studiosi (Ubaldini prima e Allacci poi, e il secondo probabilmente influenzato dal primo), che del resto non ebbero altre fonti che le carte del Colocci. Tale variante si è poi conservata, ed anzi si è presentata anche nella forma Ciullo, che è sembrata una derivazione da Vincenzo attraverso il suo diminutivo Vincenzullo.

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