Passavanti:
l’exemplum del carbonaio di Niversa
1)
Chi non patisce un siffatto dramma
interiore, ma ha invece solide certezze, è Jacopo Passavanti, il frate
domenicano vissuto nelle prima metà del sec. XIV, autore di un trattato (lo Specchio
di vera penitenza) in cui sono raccolte le prediche da lui stesso
tenute nella quaresima del 1354.
Servendosi di racconti esemplari quanto mai vividi, Passavanti intende ammonire
i fedeli ad astenersi dal peccato e a fare penitenza, se non vogliono
incorrere, dopo la morte, nei rigori della giustizia divina. Fra questi, l’exemplum
del carbonaio di Niversa è certamente uno dei più famosi; ed è anche
interessante per il nostro discorso, perché, essendo ancora una volta la
passione d’amore il peccato oggetto di punizione nell’aldilà, richiama
inevitabilmente alla memoria le precedenti visioni di Dante e di Andrea
Cappellano.
2)
Vi si racconta di come un carbonaio
assista nottetempo, mentre veglia presso la fossa accesa dei carboni, alla
visione terrificante di una, cosiddetta, "caccia
tragica". Leggo il passo:
vide
venire in verso la fossa correndo e
stridendo una femmina iscapigliata e ignuda; e dietro le veniva uno cavaliere in su uno cavallo nero,
correndo, con uno coltello ignudo in mano: e della bocca, e degli occhi, e del
naso del cavaliere e del cavallo usciva una fiamma di fuoco ardente.
Giugnendo la femmina alla fossa che ardeva, non passò più oltre, e nella fossa
non ardiva di gittarsi, ma correndo intorno alla fossa fu sopraggiunta dal
cavaliere, che dietro le correva: la quale traendo guai, presa per li svolazzanti capelli, crudelmente la ferì per lo mezzo del
petto col coltello che tenea in mano. E, cadendo in terra, con molto spargimento di sangue, sì la
riprese per li insanguinati capelli, e gittolla nella fossa de’ carboni ardenti:
dove, lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutta focosa e arsa la
ritolse; e ponendolasi davanti in su il collo del cavallo, correndo se ne andò
per la via onde era venuto
La
visione si presenta identica per tre notti, finché il carbonaio ne parla al
conte di Niversa, il quale assiste di persona alla visione e quindi, per quanto
spaventato, osa chiederne ragione al feroce cavaliere. E questi gli risponde:
“sappi
ch’io fui Giuffredi tuo cavaliere, e
in tua corte nutrito. Questa femmina contro alla quale io sono tanto
crudele e fiero, è dama Beatrice,
moglie che fu del tuo caro cavaliere Berlinghieri. Noi, prendendo piacere
di disonesto amore l’uno
dell’altro, ci conducemmo a consentimento di peccato; il qual a tanto condusse
lei che, per potere più liberamente fare
il male, uccise il suo marito. E perseverammo nel peccato insino
alla infermitade della morte….” E domandando il conte che gli desse ad
intendere le loro pene più specificatamente, rispuose con lacrime e con
sospiri, e disse: «Imperò che questa donna per amore di me uccise il marito
suo, le è data questa penitenzia, che, ogni notte tanto quanto ha istanziato la
divina iustizia, patisca per le mie mani duolo di penosa morte di coltello, e imperò ch’ella ebbe in verso di me ardente
amore di carnale concupiscienzia, per le mie mani ogni notte, è gittata ad
ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come già ci vedemmo
con grande disio e con piacere di grande diletto, così ora ci veggiamo con
grande odio, e ci perseguitamo con grande sdegno. E come l’uno fu cagione all’altro d’accendimento di disonesto amore,
così l’uno è cagione all’altro di crudele tormento: ché ogni pena ch’io fo
patire a lei, sostengo io, ché il coltello di che io la ferisco, tutto è fuoco
che non si spegne; e, gittandola nel fuoco, e traendonela e portandola, tutto
ardo io di quello medesimo fuoco che arde ella. Il cavallo è uno dimonio al quale noi siamo dati, che ci ha a
tormentare.»
Siccome
poi, aggiunge il cavaliere, loro due peccatori si pentirono in punto di morte,
la misericordia di Dio mutò la pena
eterna dello ’nferno in pena temporale di purgatorio; pertanto egli
sollecita preghiere, elemosine e messe affinché le loro sofferenze siano
alleviate.
L’amore
cortese condannato senza dubbi e perplessità
3)
Questo l’exemplum narrato da Passavanti. E non si può non avvertire che, per
quanto la pena descritta sia di purgatorio e non di inferno, temporanea e
non eterna, purtuttavia la stessa è
così orribile che al confronto impallidisce la pena di Paolo e Francesca (i
quali, nel loro inferno, non si vedono con odio e terrore, ma insieme vanno
ancora legati da un amore che sembra sfidare la stessa legge divina che li ha
dannati). E’ evidente che per fra’ Jacopo la passione d’amore non
ammette scusanti, non porta con sé alcun segno di nobiltà, è ormai soltanto
esecrabile concupiscenza della carne: la
morale cristiana ha fatto valere appieno i suoi principi, senza più dubbi e
senza perplessità, quei dubbi e quelle perplessità che avevano reso così dolorosamente
lacerante l’incontro di Dante con Francesca.
Più
che l’uxoricidio la colpa è il “disonesto amore”
4)
E si badi: non è tanto l’uxoricidio (apro una parentesi: il termine
“uxoricidio” in italiano indica non
solo l’uccisione della moglie, uxor
in latino, ma anche quella del marito da parte della moglie), quanto il disonesto amore (nel testo ripetuto due volte)
a determinare per i due (e per la donna in particolare) una punizione così
terribile; l’uccisione del marito è
tuttalpiù un aggravante, certo una conseguenza, come ogni altra nefandezza,
di un peccato che comporta offuscamento della ragione (di un peccato
proprio di coloro che, appunto, la
ragione sommettono al talento).
5)
Dunque, il disonesto amore: e "disonesto" perché adulterino.
Niente di più distante dalle teorizzazioni di Andrea Cappellano. Là
l’adulterio, lungi dall’essere deplorato, era raccomandato. Né si può
pensare che in Passavanti la "disonestà" sia associata alla mancanza
di cortesia dei due protagonisti; perché è vero che niente si dice sui loro
costumi e che il cavaliere non tenta di
giustificare - a differenza di quel che fa Francesca - con il "cuore
gentile" la caduta nel peccato; ma
è anche vero che il loro nobile lignaggio (lui è cavaliere, “nutrito” alla corte del
conte; lei è “dama Beatrice”) lascia
intendere di per sé, in mancanza di indicazioni contrarie, un mondo di belle
cortesie, all’interno del quale, secondo la dottrina enunciata da Andrea,
quell’amore, ancorché carnale e adulterino, avrebbe avuto pieno titolo per
realizzarsi.
La
visione è notturna, come in Dante, mentre è diurna in Andrea
6)
Ma vediamo qualche altro particolare. L’ombra
nera della notte avvolge la scena, una notte lugubre, rischiarata dal rosso
vivo dei carboni accesi e del fuoco che
spira della boca e degli ochi e dello
naso del cavaliere e del cavallo. E’ la notte che si addice al peccato: la tenebra materiale
corrisponde ora a quella tenebra che in vita rese cieca la ragione, quando la
lussuria prese il sopravvento. Anche per
Francesca, nell’Inferno di Dante, c’è la notte, il loco d’ogne luce muto (famosa sinestesia), il buio senza tempo
e senza fine del mondo sotterraneo. Se la
luce è vita ed è salvezza, non può esserci la luce per i dannati
all’inferno.
7)
Alla luce piena del giorno avveniva
invece, nella visione di Andrea Cappellano, l’incontro del cavaliere con il
corteo guidato dal dio Amore. Lì evidentemente la passione amorosa non
implicava in alcun modo l’idea di peccato; e questo non solo perché, come
s’è visto, ad essere punita era piuttosto la castità, ma anche perché quell’oltretomba era associato ad un paesaggio
terreno rischiarato dal sole, la visione non comportava il passaggio ad
una dimensione allucinata ed angosciante, ma si compiva in un ambiente naturale
i cui elementi, per quanto dolorosi, sono riconoscibili e familiari,
appartengono alla quotidianità (il sole cocente, la polvere, i cavalli zoppi
e macilenti, le spine). E ciò sembra appropriato ad una concezione laica che si serve sì, in
ossequio alle idee dominanti, di una visione ultraterrena, ma sostanzialmente tratta in termini
naturali e terreni una questione naturale e terrena come l’amore fra l’uomo e
la donna.
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