martedì 11 aprile 2017

(II) La poesia di Montale: Le occasioni, il motivo della memoria e la difficoltà di comprensione


Le occasioni: il motivo della memoria e la difficoltà di comprensione



1.      Dicevo che la possibilità di fuoriuscire dalla condizione di inautenticità, di spezzare l’anello che non tiene, di trovare una smagliatura nella rete che ci imprigiona, è concessa in alcuni momenti, in alcune occasioni. Un’altra di queste possibilità è data dalla memoria. La capacità di restare attaccati ad un ricordo, particolarmente ad un ricordo condiviso, il ricordo di un episodio felice, di un volto, di una figura femminile significativa, sembra essere la garanzia di avere afferrato qualcosa che appartiene alla vita vera, autentica, qualcosa che resiste al logoramento del tempo. E’ un motivo che ricorre nella seconda raccolta, Le occasioni (1939).

2.      Rispetto agli Ossi, si tratta di poesie di comprensione più difficile, per il semplice fatto che, mentre negli Ossi gli oggetti simbolici erano accompagnati, per così dire, da una spiegazione (si pensi a I limoni o a Spesso il male di vivere…), ne Le occasioni gli oggetti, gli eventi, compaiono senza alcun chiarimento sul senso della loro presenza, appartengono alla memoria del poeta, sono legati a vicende della sua vita che, ovviamente, il lettore non conosce. Del resto è lo stesso Montale che dice di aver pensato alla poesia come “a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli. Ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l’occasione e l’opera-oggetto, bisognava esprimere l’oggetto e tacere l’occasione-spinta”.



La difficoltà di comprensione: La speranza di pure rivederti



3.      Per spiegare ancora meglio, ascoltate questa breve poesia:

La speranza di pure rivederti
m’abbandonava;

e mi chiesi se questo che mi chiude
ogni senso di te, schermo d’immagini,
ha i segni della morte o dal passato
è in esso, ma distorto e fatto labile,
un tuo barbaglio:

(a Modena, tra i portici,
un servo gallonato trascinava
due sciacalli al guinzaglio).

4.      Il senso delle prime due strofe è abbastanza chiaro, ma decisamente enigmatica pare la terza strofa, con quel riferimento ad un servo gallonato che trascina due sciacalli al guinzaglio. Ci ha pensato lo stesso Montale, in un articolo sul “Corriere della Sera”, a spiegare l’occasione-spinta. Ed ecco qua:  Un pomeriggio d’estate Mirco si trovava a Modena e passeggiava sotto i portici. Angosciato com’era e sempre assorto nel suo "pensiero dominante", stupiva che la vita gli presentasse come dipinte o riflettesse su uno schermo tante distrazioni. Era un giorno troppo gaio per un uomo non gaio. Ed ecco apparire a Mirco un vecchio in divisa gallonata che trascinava con una catenella due riluttanti cuccioli color sciampagna, due cagnuoli che a una prima occhiata non parevano né lupetti, né bassotti, né volpini. Mirco si avvicinò al vecchio e gli chiese: "Che cani sono questi?" E il vecchio secco e orgoglioso: "Non sono cani, sono siacalli". (Così pronunciò da buon settentrionale incolto; e scantonò poi con la sua pariglia). Clizia amava gli animali buffi. Come si sarebbe divertita a vederli! Pensò Mirco. E da quel giorno non lesse il nome di Modena senza associare quella città all’idea di Clizia e dei due sciacalli. Strana, persistente idea. Che le due bestiole fossero inviate da lei, quasi per emanazione? Che fossero un emblema, una citazione occulta, un senhal? O forse erano solo un’allucinazione, i segni premonitori della sua decadenza, della sua fine? Fatti consimili si ripeterono spesso; non apparvero più sciacalli ma altri strani prodotti della boîte à surprise (scatola a sorpresa) della vita: cani barboni, scimmie, civette sul trespolo, menestrelli, ... E sempre sul vivo della piaga scendeva il lenimento di un balsamo. Una sera Mirco si trovò alcuni versi in testa, prese una matita e un biglietto del tranvai (l’unica carta che avesse nel taschino) e scrisse queste righe: "La speranza di pure rivederti – m’abbandonava; – e mi chiesi se questo che mi chiude – ogni senso di te, schermo d’immagini, – ha i segni della morte o dal passato – è in esso, ma distorto e fatto labile, – un tuo barbaglio." S’arrestò, cancellò il punto fermo e lo sostituì con due punti perché sentiva che occorreva un esempio che fosse anche una conclusione. E terminò così: "(a Modena fra i portici, – un servo gallonato trascinava – due sciacalli al guinzaglio)". Dove la parentesi voleva isolare l’esempio e suggerire un tono di voce diverso, lo stupore di un ricordo intimo e lontano. (...) Ho toccato un punto (un punto solo) del problema dell’oscurità o dell’apparente oscurità di certa arte d’oggi: quella che nasce da un’estrema concentrazione e da una confidenza forse eccessiva nella materia trattata.”

5.      Dunque, ecco il senso: la speranza di rivederti ancora mi abbandonava; mi chiesi se questo schermo di immagini (le immagini della multiforme realtà quotidiana) che mi impedisce di sentirti e vederti fosse un presagio di morte oppure ci fosse in esso un segno luminoso (un tuo barbaglio), per quanto debole, della tua presenza. E questa ambiguità è testimoniata proprio dal ricordo dei due sciacalli, che il poeta non sa se “fossero inviati da lei, quasi per emanazione”, quindi fossero un segno della sua presenza, o fossero invece un segno della decadenza e della fine.



La casa dei doganieri
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Anna degli Uberti (Annetta/Arletta)

6.      Ma vediamo una delle più note poesie de Le occasioni, La casa dei doganieri:

Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.

Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende ...)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.

7.      La casa dei doganieri era un edificio della Guardia di Finanza a Monterosso, dove Montale negli anni giovanili trascorreva l’estate, ed era – così sembra dal testo – il luogo dell’incontro, o degli incontri, con la donna cui il poeta si rivolge con il “tu”. E’ una donna che compare anche negli Ossi di seppia (e il cui ricordo torna anche nelle poesie più tarde) e a cui il poeta ha dato il nome di Annetta o Arletta. Ho detto che così sembra dal testo, ma in realtà si tratta di un ricordo immaginario, o dell’immagine di un ricordo, visto quel che ha detto lo stesso Montale: “La casa dei doganieri fu distrutta quando avevo sei anni. La fanciulla in questione non potè mai vederla; andò verso la morte, ma io lo seppi molti anni dopo”; e in un’altra occasione ha detto che si trattava di una villeggiante conosciuta a Monterosso e morta giovane: “Per quel poco che visse, forse lei non s’accorse nemmeno che io esistevo”.

8.      In questa immaginazione, l’impossibilità di condividere il ricordo (perché la donna è morta, o è lontana, irrimediabilmente estranea alla vita del poeta) implica per il poeta la perdita di un punto di riferimento nel percorso della vita, ne determina lo smarrimento, il disorientamento: a questo alludono gli oggetti evocati: la bussola impazzita, i dadi, il cui calcolo non torna, il filo che si aggroviglia, la banderuola che “gira senza pietà” (bella anche l’immagine della casa che “s’allontana: sembra una ripresa cinematografica con uno zoom all’incontrario, a indicare il dileguarsi del ricordo in un passato ormai irrevocabile).

9.      In questo smarrimento in cui la quotidianità del presente prende il sopravvento, ecco che ritorna un motivo caro a Montale, quello della possibilità, o del desiderio, di spezzare la rete che ci imprigiona (si pensi a I limoni), di fuoriuscire da una dimensione che si sente inautentica, negativa, di trovare un “varco”. Ne I limoni erano il colore e l’odore dei limoni, qui la luce intermittente di una petroliera che passa in lontananza. Ma l’immagine dell’onda che “ripullula”, che continua a infrangersi sulla scogliera, sembra indicare l’impossibilità della fuoriuscita, un destino di immobilità segnato dal ripetersi degli stessi fenomeni.

10.  Resta il verso finale, enigmatico: “Ed io non so chi va e chi resta”. Mi affido a Montale che, interpellato in proposito, dopo aver detto che la fanciulla morì, aggiunge: “Io restai e resto ancora. Non si sa chi abbia fatto la scelta migliore. Ma verosimilmente non vi fu scelta.” Dunque, se “andare” e “restare” equivalgono a morire e restare in vita, dire Ed io non so chi va e chi resta”, significa dire “non so chi sia morto veramente, lei o io, che vivo in una condizione di immobilità simile alla morte”.



La dogana e Silvia



11.  Del resto, riflettiamo anche sulla significatività del luogo evocato: la casa dei doganieri. I doganieri sono gli addetti ai confini, quindi quel luogo segnala un confine, che non può essere altro che quello fra la vita vera e vita falsa, vita autentica e vita inautentica, e infine fra vita e morte. Non a caso è da qui che si può intravedere “il varco”. E allora il verso finale intende insinuare il dubbio che chi è biologicamente morto, come Arletta, viva una vera vita, mentre chi è biologicamente vivo, come il poeta, viva una vita simile alla morte. 

12.  Un’ultima considerazione. Viene in mente A Silvia di Leopardi, perché in ambedue le poesie ci si rivolge ad una fanciulla morta, ma l’incipit segnala un rovesciamento di segno. In Leopardi Silvia è invitata a ricordare (Silvia, rimembri ancora…), Montale invece afferma con nettezza l’impossibilità per la fanciulla di ricordare (Tu non ricordi, non solo nell’incipit, ma ancora ai vv. 10 e 21). Ma le due fanciulle sembrano accomunate da un carattere che le vede contemporaneamente allegre e pensierose: “lieta e pensosa” era Silvia ed aveva occhi “ridenti e fuggitivi”, era “lieto” il “riso” di Annetta-Arletta, ma c’era in lei il turbamento di un’inquietudine (“lo sciame dei tuoi pensieri” “vi sostò irrequieto”).


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