martedì 11 aprile 2017

(I) La poesia di Montale e la linea Pascoli-Gozzano


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Premessa


1.     Presentare Montale non è impresa facile, sia perché non si tratta di un poeta di facile comprensione, sia perché ci sono diversi momenti nella sua produzione, diversi pur nella persistenza di una tematica di fondo. Io ho cercato di delineare un percorso, che in qualche modo dia conto di questi diversi momenti, e l’ho fatto sostenendo il mio discorso con la lettura di alcune poesie, scelte, a mio giudizio, fra le più belle e significative – e ovviamente, per necessità di tempo, trascurandone altre, altrettanto belle e significative.

2.      Leggo le poesie e cerco di spiegarle letteralmente e di interpretarle. L’impresa, dicevo, non è sempre facile. A volte ci aiuta lo stesso Montale, il quale, appositamente interpellato, ha fornito dei chiarimenti sul senso di alcuni versi e di alcune immagini. Altre volte la comprensione letterale e l’interpretazione allegorica a me sembrano totalmente affidate al lettore.



Una linea che parte da Pascoli…



3.      Montale è un poeta che si colloca pienamente nella tradizione poetica del nostro Novecento, nel senso che non è difficile riconoscere nella sua poesia ascendenze che rimandano ai due maestri della poesia italiana del Novecento, ovvero Pascoli e D’Annunzio.

4.      Dico Pascoli, ma meglio dovrei dire quella linea che congiunge Pascoli ai poeti crepuscolari e che si caratterizza per la predilezione delle cosiddette “piccole cose”, per l’introduzione in poesia di cose, oggetti tradizionalmente esclusi, in quanto appartenenti alla realtà “bassa”, alla quotidianità, e quindi indegni della “altezza” della poesia. Pascoli, in una lettera del 1899 al pittore Antony de Witt, indicava in questo modo l’intenzione di estendere il diritto di cittadinanza in poesia a tutti gli elementi della realtà:Le anime e le cose, sieno esse grandi o piccole, buone o cattive, belle o brutte, hanno tutte un quid poetico in esse celato, celato più o meno: il poeta ve lo coglie e ne fa la poesia: come l’ape che, sia il fiore amaro o dolce, grande o piccolo, sia trifoglio o rosa, vistoso o umile, ne estrae sempre quel miele.”

5.      E’ un pensiero perfettamente coerente con la cosiddetta “poetica del fanciullino”: il poeta è un fanciullo, e dunque è attratto ed emozionato non solo da ciò che è grande e vistoso, ma anche da ciò che è piccolo ed apparentemente insignificante.

6.      Chi conosce la poesia di Pascoli sa bene come gli elementi che costituiscono il paesaggio della campagna, ma anche le piccole cose, gli oggetti della vita quotidiana siano sempre nominati con precisione: gli alberi non sono mai genericamente alberi, ma meli, peri, ciliegi, faggi, ecc.; gli uccelli non saranno uccelli, ma puffini, tordi, cinciallegre, ecc.. Del resto si pensi che Pascoli ha dedicato un poemetto alla piadina, un altro al bucato

7.      Certo, nella poesia di Pascoli c’è dell’altro, Pascoli è un visionario, sente come pochi altri la contiguità fra il mondo dei vivi e il mondo dei morti, dietro le piccole cose si nascondono sensazioni e sentimenti inquietanti. Ma questa sua predilezione per il tono basso della poesia ha fatto scuola, i poeti crepuscolari, in polemica antidannunziana, lo riprendono e lo esasperano.



… passa per Gozzano



8.      Se Pascoli aveva parlato del trifoglio per rivendicare la dignità poetica delle piccole cose, Gozzano, il più significativo dei crepuscolari, va ancora più in là. Sentite questi versi tratti da La signorina Felicita:

Sei quasi brutta, priva di lusinga

nelle tue vesti quasi campagnole,

ma la tua faccia buona e casalinga,

ma i bei capelli di color di sole,

attorti in minutissime trecciuole,

ti fanno un tipo di beltà fiamminga...



E rivedo la tua bocca vermiglia

così larga nel ridere e nel bere,

e il volto quadro, senza sopracciglia,

tutto sparso d'efelidi leggiere

e gli occhi fermi, l'iridi sincere

azzurre d'un azzurro di stoviglia...



Tu m'hai amato. Nei begli occhi fermi

rideva una blandizie femminina.

Tu civettavi con sottili schermi,

tu volevi piacermi, Signorina:

e più d'ogni conquista cittadina

mi lusingò quel tuo voler piacermi!



Ogni giorno salivo alla tua volta

pel soleggiato ripido sentiero.

Il farmacista non pensò davvero

un'amicizia così bene accolta,

quando ti presentò la prima volta

l'ignoto villeggiante forestiero.



Talora - già la mensa era imbandita -

mi trattenevi a cena. Era una cena

d'altri tempi, col gatto e la falena

e la stoviglia semplice e fiorita

e il commento dei cibi e Maddalena

decrepita, e la siesta e la partita...



Per la partita, verso ventun'ore

giungeva tutto l'inclito collegio

politico locale: il molto Regio

Notaio, il signor Sindaco, il Dottore;

ma - poiché trasognato giocatore -

quei signori m'avevano in dispregio...



M'era più dolce starmene in cucina

tra le stoviglie a vividi colori:

tu tacevi, tacevo, Signorina:

godevo quel silenzio e quegli odori

tanto tanto per me consolatori,

di basilico d'aglio di cedrina...



Maddalena con sordo brontolio

disponeva gli arredi ben detersi,

rigovernava lentamente ed io,

già smarrito nei sogni più diversi,

accordavo le sillabe dei versi

sul ritmo eguale dell'acciottolio.



9.      Al di là del trifoglio pascoliano, per rimanere al mondo vegetale, ci sono le piante da cucina, il basilico, l’aglio, la cedrina. E ci sono anche, con tutt’altro valore rispetto a Pascoli, le piccole cose della quotidianità: il gatto, la falena, le stoviglie

10.  Montale amava Gozzano, diceva di lui che era stato “il primo che abbia dato scintille facendo cozzare l’aulico col prosaico ”, in quanto “fondò la sua poesia sull’urto, o choc, di una materia psicologicamente povera, frusta, apparentemente adatta ai soli toni minori, con una sostanza verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé ”. Fare cozzare l’aulico col prosaico, è una modalità, vedremo, propria anche di Montale: Gozzano lo fa continuamente, ad esempio, nella strofa in cui descrive la bellezza “quasi campagnola” di Felicita, accosta – nel luogo della rima, dove il rilievo è maggiore – una parola della quotidianità come “casalinga” ad una parola, “fiamminga”, che evoca un riferimento coltissimo alla pittura; ma anche sotto, le “iridi sincere” degli occhi sono accostate all’azzurro delle stoviglie. Ma sentite anche questa strofa:



Tu non fai versi. Tagli le camicie

per tuo padre. Hai fatta la seconda

classe, t’han detto che la Terra è tonda,

ma tu non credi.... E non mediti Nietzsche....

Mi piaci. Mi faresti più felice

d’un’intellettuale gemebonda....



11.  La scintilla scocca grazie all’accostamento, in rima, fra una parola del lessico quotidiano come “camicie” e il nome di un filosofo di altissimo livello (Nietzsche).



… e arriva a Montale: I limoni



12.  Ebbene, se c’è una poesia di Montale che senz’altro rivela, proprio nell’incipit, l’appartenenza dello stesso a questa linea che va da Pascoli ai crepuscolari, è I limoni, nella prima raccolta, Ossi di seppia (1925-28):

Ascoltami, i poeti laureati

si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità. 

13.   La polemica contro i “poeti laureati” (quelli cinti da una corona di alloro, quelli con la voce forte e chiara, come Carducci o D’Annunzio) si concretizza nel riferimento a piante rare e illustri (altro che il trifoglio di Pascoli o il basilico, l’aglio e la cedrina di Gozzano): a tali piante Montale oppone gli “erbosi fossi”, i “ciuffi delle canne” e gli “alberi dei limoni”.



I limoni: la tematica



14.  Ma è una poesia, questa, che già enuncia pienamente la tematica cara a Montale. Montale avverte un senso di estraneità rispetto al mondo circostante, si sente in  “disarmonia” o “inadatto” (sono parole che usa lui stesso; e aggiunge anche: mi sentivo come rinchiuso in una “campana di vetro”). Il mondo fenomenico, nel quale viviamo, gli pare falso, inautentico, eppure è il mondo che ci contiene, come una prigione dalla quale non si può evadere. Non a caso sono spesso nominati oggetti che indicano la chiusura, l’impedimento, il muro in particolare: “l’erto muro” in In limine, lo “scalcinato muro” in Non chiederci la parola, la “muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia” in Meriggiare pallido e assorto, “la rete che ci stringe” ancora in In limine; e si potrebbe continuare.

15.  Ma ci sono occasioni, momenti miracolosi, in cui sembra aprirsi uno squarcio, sembra rompersi la rete che ci imprigiona, ed è possibile, per un momento, attingere ad una verità profonda, entrare in una dimensione di autenticità e sentirsi finalmente in armonia. Vedere il giallo dei limoni e sentirne l’odore è uno di questi momenti (questo il senso delle strofe 2 e 3).

16.  Ma è un momento precario, destinato a venir meno. Tale è il senso del passaggio dalla campagna alla città e dalla stagione estiva a quella invernale: nell’inverno cittadino si ricompone l’inganno usuale della realtà fenomenica, un inganno rotto occasionalmente dalla vista, “tra gli alberi di una corte” del giallo dei limoni.



I limoni: il linguaggio e il “correlativo oggettivo”



17.  Qualche osservazione sul linguaggio. Anche Montale, come Gozzano, ama far cozzare l’aulico col prosaico: agli elementi della quotidianità (si pensi ad esempio ad una espressione propria del parlato quale “Io, per me, amo le strade…) sono associate parole o espressioni colte o rare: sparuta (l’anguilla) susurro (con una esse sola), piove (usato transitivamente), divertite (è un latinismo), cimase (parola già in Pascoli e Gozzano), s’affolta (per s’addensa). Anche la sintassi, pur abbastanza lineare, non è priva di ricercatezza: oltre al piove usato transitivamente, sottolineo il ricorrere dell’anastrofe (agguantano i ragazzi, si ascolta il susurro, … tace la guerra, ci riporta il tempo, s’affolta il tedio, ecc.)

18.  Ma Montale è anche molto attento alla musicalità, al livello fonico della poesia: i richiami in rima sono frequenti, non solo a fine di verso, ma anche interni (laureati, usati; dolcezza, ricchezza; indaga, dilaga; umana, allontana); notevole la rima in chiasmo al v. 42 (avara, amara, con richiamo fonico anche con anima). Ma i legami fonici sono anche dati da assonanze e consonanze (piante, acanti; muove, odore; portone, corte).

19.  A me non sembra casuale anche l’uso nelle prime strofe di parole dal suono duro, aspro, quasi a significare, sul piano fonico, l’asprezza del vivere: tali sono le ricorrenti parole con la doppia zeta (pozzanghere, mezzo, ragazzi, viuzze, gazzarre, azzurro) affiancate ad altre dal suono altrettanto duro (seccate, agguantano, ciuffi).

20.  Ma notiamo già un’altra caratteristica della poesia di Montale: è una poesia “di cose” – ha detto un critico – non “di parole”, e voleva dire che quella di Montale non è una poesia della parola pura, della parola unica e significativa che emerge dal silenzio, come per Ungaretti, che appunto isola la parola nel verso perché esprima appieno l’intensità del suo significato. Montale nomina cose, oggetti concreti (li nomina con precisione, in questo è pascoliano), rifugge, per quanto possibile, dalle astrazioni. Gli oggetti diventano così gli emblemi, o meglio, per usare un’espressione tratta da Eliot, il “correlativo oggettivo” del suo stato d’animo, del suo sentire. Qui, ad esempio, gli erbosi fossi, le pozzanghere, l’anguilla, i ciuffi della canne, gli alberi dei limoni; e poi più avanti l’anello che non tiene, il filo da disbrogliare, ecc.).



Il “correlativo oggettivo”: Spesso il male di vivere ho incontrato



21.  E’ una caratteristica che vediamo bene in un’altra poesia, fra le più famose, Spesso il male di viere ho incontrato:



Spesso il male di vivere ho incontrato

era il rivo strozzato che gorgoglia

era l'incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.



Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.



22.  Il male di vivere è rappresentato, nella prima quartina, con tre “cose” concrete, tre elementi della natura: il rivo strozzato che gorgoglia (una strettoia, dove l’acqua del ruscello fatica a passare, e il suo gorgogliare sembra un lamento), l'incartocciarsi della foglia riarsa (una foglia rinsecchita dal sole, che si accartoccia, e in questo accartocciarsi c’è la sofferenza determinata dalla perdita dei fluidi vitali: del resto il motivo dell’aridità, della secchezza, è ricorrente nella poesia montaliana, particolarmente negli Ossi, vero e proprio correlativo oggettivo di una condizione esistenziale desolata, prosciugata e svuotata: la terra polverosa e seccata dal sole è il luogo della privazione e della negatività. Lo stesso titolo della raccolta rimanda a questo motivo, visto che gli ossi di seppia non sono che un relitto, quanto mai inaridito, della vita organica), infine il cavallo stramazzato al suolo evoca con potenza il male di vivere.

23.  Nella seconda quartina sono indicati i correlativi oggettivi dell’unico “bene” possibile, ovvero di quella che Montale chiama “la divina Indifferenza”. L’indifferenza – con la i maiuscola e detta “divina” perché propria degli dei, come già sosteneva la filosofia epicurea – ovvero la capacità di non lasciarsi coinvolgere dalla sofferenza del mondo, di vivere, diceva Epicuro, in condizione di atarassia, è oggettivata da tre elementi: la statua nella sonnolenza del meriggio (qui compare la figura umana, ma pietrificata, come lo è la statua, e quindi capace di indifferenza), la nuvola, il falco alto levato (sono elementi che rimandano al cielo, e quindi ad una distanza rispetto ai mali della terra, del resto non si può non rilevare l’opposizione fra ciò che sta in alto, e che ha a che fare con la “divina Indifferenza”, e ciò che sta in basso – gli elementi della prima quartina – e che ha a che fare con il male di vivere).

24.  Ma si noti anche l’opposizione fra i suoni  duri e aspri della prima quartina (strozzato, gorgoglia, incartocciarsi, riarsa, stramazzato) e quelli senz’altro chiari e distesi della seconda quartina, in particolare nell’ultimo verso (…la nuvola, e il falco alto levato).

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