Dario
Fo legge il Contrasto di Cielo
d’Alcamo
Introduzione
1)
L’argomento che ho scelto per questo
incontro, Dario Fo legge il Contrasto di
Cielo d’Alcamo, nasce da un mio antico interesse per il teatro di Dario Fo,
in particolare per l’opera intitolata Mistero
buffo, che alla fine degli anni Sessanta ho visto a teatro almeno un paio
di volte.
“Mistero”
“buffo”
2)
Mistero
buffo si intitola, e la parola “mistero” rimanda già nell’antichità a riti religiosi per iniziati (si pensi ai misteri
dionisiaci o ai misteri eleusini) e nel cristianesimo medievale sono detti “misteri” le sacre
rappresentazioni. Ma chiamarlo “buffo”,
come nel caso della rappresentazione messa in scena da Fo, vuol dire porsi
in un’ottica rovesciata, dissacrare
la “sacra rappresentazione” guardandola
con l’occhio disincantato del giullare che ne mostra gli aspetti non
solo ridicoli, ma anche e soprattutto oppressivi.
Fo
in veste di giullare
3)
Il testo è costituito da una serie di “giullarate”, ovvero
rappresentazioni di ambientazione medievale –
ricostruite sulla base di testi storici, testi apocrifi, tradizioni
orali – recitate da Fo in veste di giullare,
cioè di quel personaggio che nel Medioevo è, sempre secondo Fo, la vera e propria voce del popolo che,
pur fra il riso suscitato dalle sue battute, denuncia le malefatte del
potere – e per questo era perseguitato e spesso bandito da piazze,
fiere, mercati delle varie città in cui si presentava.
Il grammelot delle giullarate
4)
Dario
Fo è da solo nella scena e i suoi sono monologhi
in cui usa spesso quella strana lingua che è il grammelot,
Il grammelot è una lingua inventata,
che si basa sulla mescolanza di parole
prive di un significato riconducibile ad una lingua codificata, anche
se si avvertono dialettismi propri delle regioni settentrionali d’Italia;
eppure sono parole in qualche modo comprensibili
grazie alla loro sonorità, al loro valore onomatopeico, ed anche grazie alla
gestualità, alla mimica con cui l’attore accompagna la recitazione.[1]
Di tali giullarate ricordo qualche titolo, tenendo conto del fatto che nel
tempo Fo ha aggiunto o tolto pezzi diversi: Le
nozze di Cana, Resurrezione di Lazzaro, La nascita del villano e
soprattutto, forse il più famoso, Bonifacio VIII.
La
giullarata su Bonifacio VIII
5)
Si tratta, come sapete, del papa
particolarmente odiato da Dante,
che lo colloca ancora vivo all’inferno, nella bolgia dei simoniaci (peccato
che ha a che fare con la compravendita di cariche ecclesiastiche). Anche Jacopone da Todi, altro poeta,
lo criticò, ma pagò un duro prezzo: cinque
anni di prigione, e fu liberato solo dopo la morte del papa. Fo ce lo
presenta all’atto della vestizione, in attesa di partecipare ad una processione
solenne, tutto compiaciuto del mantello prezioso che sta indossando. Mentre
viene vestito, si vanta della sua abitudine di fare inchiodare per la lingua
alle porte di certe città eretici e dissidenti (confesso che non so dove Fo abbia
preso questa notizia e dunque se abbia qualche fondamento); quindi
intona dei salmi e si rivolge a un chierico immaginario – che lo sta aiutando
nella vestizione e nel canto – colpevole di aver sbagliato l’intonazione
dell’Alleluja. “Stunàt! – gli grida –
attento a te!”, mimando il dondolio
di uno appeso per la lingua. Poi si avvia alla processione, ma qui incrocia un
altro corteo, guidato nientemeno che da Cristo, piegato sotto la croce e
grondante sangue. Bonifacio volta la testa inorridito (“guardare ‘ste cose mi fa impressione”, dice), quindi gli dà del
matto, “un fissato, gli piacciono solo i
disgraziati, la gente tutta sporca, le puttane”. Bonifacio cerca invano di
far valere la sua autorità papale, ma Cristo non gli dà ascolto; allora si
finge umile e voglioso di aiutarlo a portare la croce, ma Cristo lo allontana
da sé rifilandogli una gran calcio nel didietro.
Poco
convincente la lettura del Contrasto
6)
Ma la parte che mi ha sempre
maggiormente incuriosito è quella iniziale, introduttiva della serie di
giullarate che compongono il Mistero
buffo; quella in cui Fo parla del Contrasto
di Cielo d’Alcamo, ne legge alcuni versi e li commenta. Qui non usa il grammelot, la sua vuole essere quasi una lezione sul
significato e sulla funzione di quel testo. Una lezione che, per quanto suggestiva e
sempre molto applaudita dagli spettatori, non
mi convinceva del tutto; quindi, appena ho potuto, ho cercato di
approfondire la questione.
Il Contrasto di Cielo d’Alcamo: di che si tratta
7)
Il
Contrasto
di Cielo d’Alcamo è noto anche col titolo di Rosa fresca aulentissima,
che sono le parole con cui inizia il componimento. Come detto, Dario Fo ne
parla all’inizio del suo Mistero buffo,
contestando le interpretazioni della critica tradizionale e, di conseguenza, il
modo in cui ci viene presentato a scuola. Si tratta di uno dei testi più antichi della letteratura italiana, non il più
antico che, come noto, è il bellissimo Cantico
delle creature di S. Francesco, datato al 1224. Il Contrasto,
da alcuni riferimenti interni, si può datare fra il 1231 e il 1250.
8)
Si chiama Contrasto perché è un componimento in cui, in un continuo botta e
risposta, dialogano due personaggi,
in questo caso un giovane che chiede
amore e una ragazza che rifiuta, all’inizio con forza, poi sempre più
debolmente fino al cedimento finale
(tanto è vero che è lei che alla fine esclama: “a lo letto ne gimo alla bon’ora”).
Dubbi sul nome dell’autore e sulla
collocazione geografica
9)
Dell’autore poco si sa, a cominciare dal
suo stesso nome, Cielo
secondo alcuni, Ciullo
secondo altri (ma su questo vedremo e discuteremo l’interpretazione di Fo),
d’Alcamo (con riferimento
alla città siciliana d’origine) o dal
camo (con riferimento al modo di vestire, essendo il camo un panno). Ed
anche la sua collocazione geografica,
senz’altro meridionale, è stata discussa (anche se ormai, sulla base dei
riscontri linguistici, pare certa la
collocazione siciliana).
Fo polemizza con l’interpretazione
tradizionale
10)
Veniamo al testo. Fo ne fa una lettura anticonformista e provocatoria, sostiene che il
Contrasto appartiene assolutamente
alla cultura popolare, è opera di un giullare che proviene dal popolo e
parla al popolo, e solo a causa della mistificazione
messa in atto dagli studiosi, nonché dalla scuola, lo si ritiene un prodotto
della cultura “alta”. Per sostenere il suo punto di vista, Fo fa
diverse considerazioni, tutte divertenti, ma, a mio parere, non tutte convincenti.
[1] L’origine non è
molto chiara: la parola grammelot sembra che derivi dal francese
“grommeler”, borbottare, e una
simile pratica recitativa sembra che si trovasse già nella commedia dell’arte
rinascimentale. Secondo molti però si tratta di una invenzione novecentesca, totalmente attribuibile a Dario Fo,
che ne ha fatto una caratteristica della propria recitazione.