domenica 20 ottobre 2024

Leopardi e la sapienza silenica (I parte)

 

I. Quando faccio lezione su Leopardi, mi trovo a dover sbrogliare il campo dal  pregiudizio (diffuso, peraltro, anche presso i contemporanei del poeta, come ampiamente testimoniato[1]) secondo cui sarebbero le personali disgrazie fisiche a determinare quel pensiero radicalmente negativo. Ed è un pregiudizio, a dir poco, fastidioso, in quanto inficia la comprensione di quel pensiero, lo svaluta, quasi fosse un pensiero dimidiato, lo riduce al miserevole lamento di chi non è capace di astrarre dalla propria condizione individuale per dire parole di verità.  Né vale citare come testimone a difesa lo stesso Leopardi, quando nella esemplare lettera al De Sinner si ribella con forza a questo trattamento liquidatorio riservatogli da critici e lettori sbrigativi[2]; e nemmeno serve cercare di spiegare, con Timpanaro, come quelle disgrazie fisiche, caso mai, si trasformino in un “formidabile strumento conoscitivo”, giacché consentono uno sguardo più acuto su verità altrimenti misconosciute dalla “normalità” dominante.

Certo, i ragazzi amano il grande Leopardi degli idilli e dei canti pisano-recanatesi, il poeta del maggio odoroso, delle care speranze, degli ameni inganni, perché lì avvertono, prima ancora di averne sentito parlare,  la profonda verità di quel giudizio di De Sanctis, secondo cui “Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone... Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto...”[3]. Ma permane una sorta di diffidenza verso il pensatore che sembra incattivito con la vita, quando argomenta, con Porfirio, a favore del suicidio[4], o quando dichiara, con Tristano, di desiderare solo la morte[5], o quando, senza altri travestimenti, dice direttamente, nello Zibaldone, di vedere un ospedale laddove gli altri vedono un giardino[6].

Mi sembra utile, allora, compiere un altro percorso, del resto indicato dallo stesso Leopardi nel sopra citato Dialogo di Tristano ed un amico[7]: si tratta di mostrare come quel pensiero, lungi dall’essere un pensiero singolare, frutto occasionale di una vita singolarmente “strozzata”, appartiene a buon diritto alla cultura occidentale, la pervade sin dalle sue origini greche, preesiste quindi a Leopardi e persiste oltre di lui.

In altre parole, Leopardi - e in questo, il solo Schopenhauer gli può stare a fianco - non è che un discepolo di Sileno, un divulgatore della sua sapienza.

Di che si tratta?

 

II. Nella Nascita della tragedia Nietzsche svela, attraverso il mito del Sileno[8], l’inquietante verità che corrode dall’interno la composta armonia del mondo greco:

 

L’antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo tra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non  essere, essere  niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è - morire presto”. [9]

 

 Il cosiddetto “pessimismo greco” trova qui la sua espressione più chiara e radicale: a fronte di tante altre occasioni in cui gli autori greci si lasciano andare a considerazioni sconsolate sulla miseria e la precarietà della condizione umana, le parole del Sileno sembrano fondare una sorta di metafisica dell’infelicità: l’infelicità è nel principio, è costitutiva dell’essere. Chi parla è il precettore di Dioniso, la divinità che si contrappone ad Apollo così come al κόσμος si contrappone il χάος, senza ordine e senza misura; e il suo non è un lamento occasionale, dettato dall’esperienza di sventure particolari. Ciò che nelle sue parole si deve intendere è che il dolore, al di là delle condizioni personali, o sociali, o comunque contingenti, è connaturato all’esistenza, al punto che non esistere è la condizione migliore. Né Sileno si rivolge ad un miserabile che conduce una vita di stenti e di privazioni, e per il quale quindi il “non essere nato” o il “morire presto” sarebbero ben comprensibili; si rivolge ad un re, ricco e potente, chiamandolo “figlio del caso e della pena” (δαίμονος ἐπιπόνου καὶ τύχης χαλεπῆς ἐφήμερον σπέρμα) e svelandogli una verità inaspettata, paradossale, scandalosa: per un re, come per l’ultimo dei suoi sudditi, meglio sarebbe “non essere nato” (τὸ μὴ γενέσθαι) o, in secondo luogo, “morire presto” (ἀποθανεῖν ὡς τάχιστα).

  Altra cosa, come si può ben capire, è lo sconforto che sorprende, ad esempio, anche Omero quando fa esclamare a Zeus:

 

Non c’è nulla più degno di pianto dell’uomo 

fra tutto ciò che respira e cammina sopra la terra [10]

 

 Non si tratta di questo, perché la visione omerica resta sostanzialmente una visione serena, “apollinea”, convinta della bellezza della vita e fiduciosa nel favore degli dei; gli eroi omerici amano la vita, ne deprecano la brevità, sono rattristati dal pensiero della morte: famoso, ed emblematico, è il passo dell’Odissea dove Achille, incontrato da Ulisse fra le ombre dell’Ade, rimpiange la vita perduta:

 

Vorrei essere bifolco, servire un padrone,

un diseredato che non avesse ricchezza

piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte [11]

 

E’ lo stesso ordine di idee per cui Semonide e Mimnermo, pur compiangendo la miseria della condizione umana, esortano a godere le gioie della vita. E Mimnermo vuole vivere, non morire, quando esclama:

 

Senza malattie, senza funesti pensieri,

il destino di morte mi colga a sessant’anni ! [12]

 

Così pure vuole vivere Solone, che, avendo già varcato il limite dei sessant’anni, rilancia l’augurio un po’ più in là:

 

Il destino di morte mi colga ad ottant’anni ! [13]

 

Ed anche Saffo, per citare un ultimo esempio, dimostra di essere ben lontana dalla sapienza silenica quando, pur fra i tormenti d’amore, si chiede perché mai gli dei sarebbero immortali se la vita non fosse un bene[14].

 

III. Ma nemmeno si tratta di un pessimismo di tipo mistico-religioso, che svaluta la vita terrena, in quanto la intende come luogo (e tempo) dell’espiazione, e vede la morte come un bene perché l’anima può finalmente liberarsi dalla prigionia del corpo: il corpo (σῶμα) si identifica con la tomba (σῆμα), come la stessa affinità fonica delle due parole sembra indicare. E’ questo un motivo (di origine orfica) ampiamente presente in Platone, ma espresso anche, fra gli altri, da Aristotele, in un frammento di grande efficacia rappresentativa:

 

Poiché è una divina sentenza, quella detta da ben antichi, che la nostra anima paga quaggiù e sconta in questa vita la pena di grandi colpe precedenti... Onde noi siamo qui in un supplizio simile a quello di coloro che, quando cadevano nelle mani dei predoni etruschi, per essere uccisi con raffinata crudeltà venivano legati con cadaveri, strettamente il vivo faccia a faccia col morto: le nostre anime sono unite ai corpi come quei vivi ai morti. [15]

 

E’ evidente che all’interno di questa concezione l’assurdità del “male di vivere” trova un senso, una giustificazione: ci si deve liberare da una sorta di peccato originale connesso con la materialità corporea, e si apre quindi, per l’anima individuale, la prospettiva di un’altra vita, finalmente felice, dopo la morte. E’ la prospettiva indicata, ad esempio, da Pindaro per chi abbia superato tre volte la prova della vita:

 

E quanti, per tre volte dimorando

nei mondi alterni, ressero

da colpe aliena l’anima,

fanno la via di Zeus fino alla torre

 di Crono, e là c’è l’isola

dei beati, le brezze dell’Oceano

fiatano intorno, brillano

i fiori d’oro,

quali da piante sulla terra splendide,

altri l’acqua li pasce,

e monili ne intricano e serti. [16]

 

E’ la concezione, come si può ben capire, che, confluendo poi nel cristianesimo, diventerà dominante nella civiltà occidentale: questo mondo è una valle di lacrime, la speranza di felicità è relegata fuori della vita terrena, nel Paradiso (o “isola dei beati” che dir si voglia), per chi abbia ben meritato.

Non si tratta di questo, perché il Sileno, nel momento in cui connette inestricabilmente esistenza ed infelicità, non fa riferimento ad un’altra possibilità di esistere, non indica la morte come la liberazione dell’anima incarcerata nel corpo e il suo avviarsi verso una dimensione alternativa e soddisfacente; semplicemente, dichiara che il nulla, il non-essere, sia dell’anima che del corpo (o anche, ma è la stessa cosa: il lasciarsi inghiottire dal χάος, senza più memoria della propria individualità), è l’unica condizione per la cessazione del dolore.

 

IV. Tutto il fulgore degli dei olimpici impallidisce dinnanzi alla sapienza di Sileno. Il precettore di Dioniso insegna una verità terribile: non c’è un senso, né terreno né ultraterreno, per la vita umana. E l’ebbrietà, di cui il dio è portatore, è la sola medicina in grado di lenire, per il tempo in cui essa dura, la malattia del vivere; l’ebbrietà che consente, tanto nella sua forma frenetica quanto in quella letargica, di spezzare i vincoli del principium individuationis  e di perdersi nel tutto.

Su tale sapienza si fonda la tragedia, la forma d’arte in cui Dioniso si concilia con Apollo, ed attraverso cui l’uomo greco, che ha intravvisto con orrore l’assurdità dell’esistenza, si difende dalla minaccia del χάος e si salva dal pericolo di perdere se stesso. Ma quell’orrore non può essere dimenticato, esso percorre la cultura greca come un fiume sotterraneo, e riemerge più volte nella forma, caratteristica ed inequivocabile, dell’aspirazione all’annientamento. Così si lamenta il coro nell’Edipo a Colono di Sofocle:

 

Non veder mai la luce

vince ogni confronto,

ma una volta venuti al mondo

tornar subito là onde si giunse

è di gran lunga la miglior sorte [17]

 

Analogo concetto è espresso più volte da Euripide:

 

Sarebbe invero opportuno che noi ci radunassimo,

a piangere la casa dove qualcuno viene alla luce,

considerando i molteplici mali dell’umana vita;

ma chi morendo pose fine ai gravi travagli,

a questo gli amici dovrebbero celebrare le esequie

con ogni lode e gioia [18]

 

Quelli dei mortali che vedono la luce sono afflitti da morbi,

e i morti nulla soffrono né patiscono mali [19]

 

Meglio per i mortali sarebbe non nascere che nascere. [20]

 

Ma è una sapienza conosciuta anche dai lirici. Così canta Teognide:

 

Bene sommo per chi sulla terra vive è non essere nato,

né i raggi vedere del sole abbagliante,

e, quando si è nati, al più presto varcare le soglie di Ade

e sotto gran massa di terra giacere. [21]

 

 E così Bacchilide ammonisce il sire Gerone dei siracusani, vincitore col cavallo veloce ad Olimpia:

 

                              Non esistere:

è ben questa per l’uomo la ventura

delle venture, non vedere il sole. [22]

 

La stessa concezione è espressa da Erodoto attraverso alcuni episodi narrati nelle Storie . Così ci dice a proposito di una popolazione della Tracia:

 

Quanto ai Trausi... quando nasce o muore loro qualcuno, si comportano come segue: alla nascita di un bambino, i parenti, sedutigli attorno, piangono i mali che dovrà sopportare dal momento che è venuto al mondo ed elencano tutte le sciagure umane. Quando invece uno muore, tutti, lieti e gioiosi, lo sotterrano, dicendo che egli ormai, liberato da tanti affanni, vivrà nella perfetta felicità. [23]

 

In un altro momento, quando Serse, scrutando l’Ellesponto tutto coperto di navi e le spiagge formicolanti di uomini, si mette a piangere al pensiero di quanto sia breve la vita umana, è Artabano a consolarlo con una verità ben più dolorosa:

 

In questa vita, che pure è così breve, non esiste nessun uomo, né di questi né di altri, felice al punto che non gli capiti spesso, e non una volta sola, di desiderare di essere morto piuttosto che di vivere. Le sciagure che ci colpiscono e le malattie che ci affliggono ci fanno trovare lunga questa vita, per breve che sia. Così, essendo la vita travagliata, la morte è per l’uomo il rifugio più desiderabile. [24]

 

Ma il più significativo, ed anche il più famoso sin dall’antichità, è l’episodio di Cleobi e Bitone:

 

Di loro si racconta che un giorno celebrando gli Argivi la festa in onore di Era, la loro madre doveva essere necessariamente trasportata al santuario con un carro, ma i buoi non erano tornati in tempo dai campi; allora i due giovani, poiché l’ora incalzava, si misero sotto al giogo e tirarono il carro, su cui viaggiava la madre, per quarantacinque stadi, fino al tempio; dopo di che, al cospetto della folla dei fedeli, incontrarono la morte più bella. E di essi gli dei si servirono per dimostrare che per gli uomini è meglio morire che vivere. Gli Argivi, stringendosi attorno a loro, li felicitavano per la loro robustezza e le Argive chiamavano beata la loro madre che aveva figli siffatti; la madre infine, al colmo della gioia per l’azione che essi avevano compiuta e per le lodi che ne avevano ricevute, ritta davanti alla statua della dea, le chiese per i figli Cleobi e Bitone, che tanto l’avevano onorata, la cosa più bella che potesse toccare ad un uomo. Dopo il sacrificio e il banchetto, i due giovani si addormentarono nel tempio e non si svegliarono più, sorpresi dalla morte nel sonno. [25]

 

Una simile vicenda veniva attribuita a Trofonio ed Agamede, gli architetti del tempio di Apollo a Delfi[26]: costoro chiesero ed ottennero dal dio come compenso per la loro opera “ciò che fosse meglio per l’uomo”: e il dio concesse loro la morte. La morte come premio, dunque, e non per passare a miglior vita, ma per passare al nulla.

E’ un pensiero, per altro, non estraneo alla cultura ebraica: se ne sente l’eco nel Vecchio Testamento, laddove Giobbe maledice il giorno in cui nella casa di suo padre si annunciò che era nato un figlio[27], e ancora, laddove l’Ecclesiaste esprime la propria disperazione con parole che, per il riferimento caratterizzante al “non essere nato”,  ricordano proprio quelle del Sileno:

 

E proclamai i morti più beati dei vivi,

e più felici d’entrambi chi non è nato ancora...[28]

 

Nel mondo latino, all’angoscia di Lucrezio che canta il lugubre vagitum del neonato, sbattuto come un naufrago sulla spiaggia della vita[29], risponde, in tutt’altro contesto, l’acuta ironia dell’autore del Satyricon[30]: in mezzo alla volgarità trionfante alla cena di Trimalchione, ci sono, attribuite alla Sibilla, parole di ben altro peso: il responso della profetessa cumana alla domanda dei fanciulli (“Σίβυλλα, τί θέλεις;”)[31]  è secco e apparentemente assurdo: Ἀποθανεῖν θέλω[32].

E quel responso sorvola le teste troppo ottuse dei liberti convitati  per giungere fin nel cuore del Novecento: Eliot lo raccoglie e lo pone ad epigrafe de La terra desolata, siccome un viatico per chi voglia visitarla.

 



[1]A parte Tommaseo, che manifestava normalmente il suo “dissenso” da Leopardi con riferimenti insultanti alla gobba, anche Capponi, il “candido Gino”, si esprimeva così, pochi anni dopo la morte del poeta: “Io per me credo proprio... che le anime nostre non sieno infelici se non in quanto sono esse piccole. Il povero Leopardi aveva scusa nell’esser gobbo; ma non è forse una piccolezza il non sapere vivere gobbi?” (da Pensieri diversi, in Scritti editi e inediti di Gino Capponi, a c. di M. Tabarrini, Firenze 1877, vol. II, p. 445).

[2] “Quali che siano le mie sventure, che si è creduto giusto sbandierare e forse un po’ esagerare in questa rivista, io ho avuto abbastanza coraggio per non cercare di diminuirne il peso, né con frivole speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una vile rassegnazione... E’ stato proprio per questo coraggio che, essendo stato condotto dalle mie vicende ad una filosofia disperata, non ho esitato ad abbracciarla tutta intera; mentre, d’altro canto, è stato solo per effetto della debolezza degli uomini, che hanno bisogno d’essere persuasi del valore dell’esistenza, che si è voluto vedere le mie opinioni filosofiche come il risultato delle mie sofferenze individuali e che ci si ostina ad attribuire alle mie circostanze materiali, ciò che si deve solo al mio intelletto. Prima di morire, io voglio protestare contro queste invenzioni della debolezza e della volgarità, e pregherò i miei lettori di cercare di demolire le mie osservazioni e i miei ragionamenti piuttosto che accusare i miei malanni.” (Lettera al De Sinner del 24 maggio 1832, in francese nell’originale; cfr. Leopardi, Le lettere, Milano 1963 [1949], p. 1033).

[3]F. De Sanctis, Saggi critici, vol. II, Bari 1965, p. 184.

[4]nel Dialogo di Plotino e Porfirio .

[5]nel Dialogo di Tristano e un amico .

[6]Zib., 4176. Cito, qui e in seguito, le pagine del manoscritto leopardiano nell’edizione a cura di G. Pacella, Milano 1991.

[7]“Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella [la mia filosofia dolorosa, ma vera] era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni, pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e, per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare.” (cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, I, Milano 1968 [1940], p. 1021).

[8]Era ritenuto il precettore di Dioniso. Sul suo incontro con il re Mida circolavano diverse versioni. Quella riportata da Nietzsche è tramandata da Plutarco (Consolatio ad Apollonium, 27), il quale a sua volta dichiara di assumerla da un dialogo di Aristotele, l’Eudemo  (fr. 44 Rose).

[9]F. Nietzsche, Die Geburt der Tragödie. Oder: Griechenthum und Pessimismus, tr. it. Milano 1982, pp. 31-32.

[10]Omero, Iliade, XVII, vv. 446-47 (trad. Calzecchi Onesti); ma un’esclamazione analoga si trova anche in Odissea, XVIII, vv. 130-131.

[11]Omero, Odissea, XI, vv. 489-91 (trad. Calzecchi Onesti). Bisognerà dire, quindi, che sia il Tristano di Leopardi (vedi sopra, alla nota 7) sia Schopenhauer negli Ergänzungen  (tr. it.  Bari 1986 [1930], p. 607) impropriamente fanno riferimento ad Omero quando indicano le radici del loro pessimismo.

[12]Mimnermo, fr. 6 Diehl.

[13]Solone, fr. 22 Diehl.

[14]Fr. 201 Lobel-Page.

[15]Aristotele, fr. 60 Rose (trad. Carlini).

[16]Pindaro, Ol. 2, vv. 68-74 (trad. Pontani).

[17]Sofocle, Edipo a Colono, vv. 1225-28 (trad. Ferrari).

[18]Euripide, Cresfonte, TGF, fr. 449 = fr. 5 Musso.

[19]Euripide, TGF, fr. 833.

[20]Euripide, TGF, fr. 908. Espressioni analoghe si trovano anche in fr. 285 e in Ippolito, vv. 189-90.

[21]Teognide, vv. 425-28 Young.

[22]Bacchilide, 5 Snell, vv. 160-164 (trad. Pontani).

[23]Erodoto, Storie, V, 4 (trad. Mattioli).

[24]Erodoto, Storie, VII, 45.

[25]Erodoto, Storie, I, 31.

[26]Ce la attesta Plutarco (Consolatio ad Apollonium, 14), il quale peraltro dichiara di assumerla da Pindaro.

[27]Giobbe, 3, 3-22.

[28]Ecclesiaste, 4, 2-3.

[29]De rerum natura,  V,  vv. 222-227.

[30]Satyricon,  XLVIII.

[31]“Sibilla, che cosa vuoi?”

[32]“Voglio morire”

Leopardi e la sapienza silenica (II parte)

 

V. Le riflessioni sul desiderio illimitato di piacere e sulla conseguente impossibilità di soddisfazione costituiscono il fondamento più chiaro del pessimismo leopardiano; le stesse costituiscono altresì evidente dimostrazione dell’affinità profonda che lega il pensiero di Leopardi alla sapienza silenica, se è vero che quelle riflessioni non fanno altro che dare sistemazione teorica all’idea, silenica, della connessione inestricabile fra esistenza ed infelicità.

Il ragionamento, sviluppato nello Zibaldone (in maniera più articolata nel luglio del 1820, ma più volte ripreso successivamente) è semplice e stringente nella sua logica: esistere comporta “amor proprio” e della propria conservazione; l’amor proprio, che è senza limite, implica a sua volta il desiderio, per sé, del piacere; tale desiderio del piacere, adeguato ad un amor proprio senza limite, non riesce ad essere colmato da nessun piacere particolare, e quindi (per quanto possa essere, occasionalmente, “ingannato”, “mitigato”, “addormentato”) resta in stato di perenne tensione insoddisfatta; se ne conclude che l’insoddisfazione, ovvero l’infelicità, è congenita all’esistenza e non ha termine se non con il termine dell’esistenza. Su questa connessione esistenza-infelicità Leopardi insiste particolarmente, e converrà citare con ampiezza:

 

Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita... Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perché, come ho detto, non finisce se non coll’esistenza... [1]

 

La felicità è impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti necessariamente... Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza necessaria della vita... Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non può essere soddisfatto), per ciò stesso, dico, che vive, non può essere attualmente felice. [2]

 

Dove non v’ha piacere, quivi ha patimento, perché v’ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Né v’ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perché il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderando perciò appunto ch’ei vive, quando e’ non gode, ei soffre.... Né altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch’ è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di essere vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e perciò appunto ch’egli è vivente, ed in quanto egli è tale... [3]

 

Ed è una condizione che riguarda non solo l’uomo, ma, secondo una certa gradazione, ogni essere vivente:

 

Una specie di viventi rispetto all’altra o all’altre generalm. ec. è tanto più felice, cioè tanto meno infelice, tanto più scarsa d’infelicità positiva, quanto meno dell’altra ella sente l’esistenza, cioè quanto men vive e più s’accosta ai generi non animali. (Dunque la specie de’ polipi, zoofiti ec. è la più felice delle viventi). [4]

 

... resta che non solo gli uomini e gli animali, ma niun essere vi sia, che possa essere né sia felice, che la felicità... sia di sua natura impossibile, e che l’universo sia di propria natura incapace della felicità, la quale viene ad essere un ente di ragione e una pura immaginazione degli uomini. E siccome d’altronde l’assenza della felicità negli esseri amanti se med. importa infelicità, segue che la vita, ossia il sentimento di questa esistenza divisa fra tutti gli esseri dell’universo, sia di natura sua, e per virtù dell’ordine eterno e del modo di essere delle cose, inseparabile e quasi tutt’uno colla infelicità e importante infelicità, onde vivente e infelice sieno quasi sinonimi. [5]

 

Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente... riconosciuto che l’infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro né deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gli individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. [6]

 

E dunque, se è vero che l’infelicità è direttamente proporzionale alla capacità di sentire la vita, e pertanto è inferiore nelle forme inferiori di vita, se ne deve concludere che per l’uomo la condizione migliore è quella meno “vitale”, ovvero quella del sonno, del letargo, dello stordimento dato dall’oppio o dall’ebbrezza:

 

un assopimento dell’anima è piacevole. I turchi se lo proccurano coll’oppio, ed è grato all’anima perché in quei momenti non è affannata dal desiderio, perché è come un riposo dal desiderio tormentoso, e impossibile a soddisfar pienamente; un intervallo come il sonno nel quale se ben l’anima forse non lascia di pensare, tuttavia non se n’avvede. [7]

 

E non godendo mai, né potendo veramente godere, resta ch’ei sempre soffra, mentre ch’ei vive, in quanto ei sente la vita: ché quando ei non la sente, non soffre; come nel sonno, nel letargo ec. Ma in questi casi ei non soffre perché la vita non gli è sensibile, e perché in certo modo ei non vive. [8]

 

E un individuo... allora è più felice quando meno ei sente la sua vita e se stesso; dunque in una ebbrietà letargica, in uno alloppiamento, come quello de’ turchi, debolezza non penosa, ec. ... Ed allora solo sì l’uomo, sì il vivente è e può essere pienamente felice, cioè pienamente non infelice e privo d’infelicità positiva, quando ei non sente in niun modo la vita, cioè nel sonno, letargo, svenimento totale, negl’istanti che precedono la morte... [9]

 

E’ da notare però che l’ubbriachezza ec., anche quando esalta le forze, e cagiona una non ordinaria vivacità ed attività... sempre però o quasi sempre cagiona eziandio nel tempo stesso una specie di letargo, di irriflessione, d’ἀναισθησία (…) Perciò appunto ella è ordinariamente piacevole, perocché sospendendo o scemando in certo modo il sentimento della vita nel tempo stesso ch’ella accresce la forza, l’energia, l’intensità, il grado, la somma, la vitalità d’essa vita, sospende o scema o rende insensibile o men sensibile l’azione, l’effetto, l’efficacia, le funzioni, l’attualità dell’amor proprio, e quindi il desiderio vano della felicità...[10]

 

Alla fine di questo ragionamento - che mette in campo, abbiamo visto, anche il motivo dionisiaco per eccellenza, l’ebbrietà, come rimedio provvisorio - ci attende inevitabile la risposta del Sileno al re Mida che gli chiedeva il segreto della felicità: meglio non essere, essere niente.

 

Desiderare la vita, in qualunque caso, e in tutta l’estensione di questo desiderio, non è insomma altro che desiderare l’infelicità; desiderare di vivere è quanto desiderare di essere infelice. [11]

 

 Leopardi avverte il carattere paradossale e contraddittorio di una simile verità - giacché alla fine si scopre la fallacia dell’assunto di partenza, che identifica l’amor proprio, quindi del proprio bene, con l’amore della propria conservazione - ma non vi rinuncia:

 

E però, secondo tutti i principi della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l’essere.  Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualche cosa?  [12]

 

Ed è una verità valida non solo per i viventi “senzienti”, come uomini e animali, ma anche per i viventi di vita vegetativa:

 

... se questi esseri sentono o, vogliamo dire, sentissero, certo è che il non essere sarebbe per loro assai meglio che l’essere. [13]

 

 

VI. Colpisce, a questo punto, la somiglianza fra queste riflessioni di Leopardi e quelle che, quasi contemporaneamente, Schopenhauer veniva formulando nel suo Die Welt als Wille und Vorstellung. Si tratta, come è noto, di una somiglianza già rilevata in un saggio memorabile da De Sanctis, il quale per altro, avendo dello Zibaldone una conoscenza limitata, non poteva avvertire di quella somiglianza tutte le dettagliate articolazioni.

La “volontà di vivere” (Wille zum Leben) di Schopenhauer, inesauribile ed incolmabile nel suo “aspirare” (Streben) senza fine,  ricorda quell’“amor proprio”, che alimenta il desiderio perennemente insoddisfatto, di cui parla Leopardi; parimenti, anche per Schopenhauer tutto ciò che vive è in condizioni di sofferenza, secondo una scala che conduce dalle forme inferiori di vita a quelle superiori:

 

Ogni aspirare proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore, finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione... Non ha termine l’aspirare, non ha dunque misura e termine il soffrire. Ma quel che così sol con più acuta attenzione scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare nella conoscente, nella vita animale, il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza indugiare in questo grado intermedio, ci volgeremo là, dove, dalla più luminosa conoscenza rischiarato, tutto nel modo più chiaro si disvela: nella vita dell’uomo. Imperocché come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così diventa anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora sensibilità, e quindi punto dolore; un grado certamente tenue di sofferenza è insito negli animali infimi, infusori e radiolari; perfino negli insetti è la capacità di sentire e di soffrire ancora limitata: solo col perfetto sistema nervoso dei vertebrati la si presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto più l’intelligenza si sviluppa...[14]

 

Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben più evidente ci apparisce quest’aspirazione considerando l’animale e l’uomo. Volere e aspirare è tutta l’essenza loro, affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base di ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l’uomo è vincolato dall’origine, per natura...[15]

 

Simile, in Leopardi e Schopenhauer, è anche l’idea, logicamente conseguente, secondo cui fra gli individui umani la capacità di soffrire è direttamente proporzionale all’intelligenza[16]; ed ancora, simile è la concezione della noia come sentimento di una mancanza non appagabile da alcun bene determinato, e quindi come sintomo, più propriamente umano, del “male di vivere”[17].

La conclusione, anche per Schopenhauer, ci rimanda alla sapienza silenica. Se il “peccato originale” è l’esistenza di per sé (la forma fenomenica nella quale la volontà si è determinata, secondo il principium individuationis), se è vero che, come dice il “poeta veggente” Calderón de la Barca, il delitto maggiore dell’uomo è l’essere nato (el delito mayor del hombre es haber nacido)[18], se ne deve concludere che “non essere, essere nulla” sia la condizione migliore:

 

E forse non si darà mai il caso che un uomo, al termine della sua vita, se capace di riflessione e in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla; ma invece ben più volentieri sceglierà il completo non essere. [19]

 

Ed è la stessa conclusione, è ancora Schopenhauer a ricordarcelo, cui giunge Amleto nel celeberrimo monologo: not to be è senz’altro lo stato preferibile e desiderabilissimo (a consummation devoutly to be wish’d). Ed Amleto si trattiene dal suicidio solo perché teme che nemmeno la morte comporti l’annientamento totale (the dread of something after death /.... puzzles th will / and makes us rather bear the ills we have / than fly to others that we know not of )[20].

Ma il suicidio, si sa, non è una scelta accettabile, né per Leopardi, né per Schopenhauer, apparentemente per ragioni diverse, sostanzialmente per la stessa. Il filosofo tedesco ritiene che il suicidio sia, paradossalmente, niente altro che un’estrema manifestazione di quella stessa volontà di vivere che si vorrebbe negare. Il poeta italiano ne parla, per bocca di Plotino, come di un atto estremo di egoismo, di amor proprio (ma l’“amor proprio” in Leopardi, abbiamo visto, sembra essere l’equivalente della “volontà” in Schopenhauer), un atto che non tiene in alcun conto il dolore “dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni”.  E’ invece da percorrersi - continua Plotino, ma gli stessi accenti risuonano nella Ginestra - la strada della solidarietà, dell’aiuto reciproco fra uomini che si riconoscono partecipi della stessa miseria. E la solidarietà è anche per Schopenhauer la scelta giusta e necessaria di chi ha visto nell’altro da sé il ripetersi del suo stesso destino: è il primo atto di chi ha cominciato a rifiutare di lasciarsi determinare dalla cieca  “volontà di vivere”, il primo atto in un processo che contempla, come suo compimento, l’annullamento totale della volontà nella scelta dell’ascesi.

 

VII. E dunque, il cosiddetto “pessimismo cosmico” di Leopardi viene da lontano: né la sua particolare biografia, né – con buona pace di Luporini - la “delusione storica” patita dalla sua generazione[21] possono spiegare appieno un pensiero che ha radici tanto profonde.

E’ un pensiero che emerge più volte, ancorché occasionalmente, nella cultura occidentale, trova una organizzazione sistematica con Leopardi e Schopenhauer, persiste oltre di loro. Basti pensare a Carlo Michelstaedter, il pensatore goriziano degli inizi del Novecento, che fa esplicito riferimento a Leopardi e Schopenhauer e che sembra evocare, ancora una volta, la sapienza silenica, nel momento in cui oppone, alle falsificazioni della “rettorica”, la verità della “persuasione”[22].

Ma il Sileno non ha bisogno di sistemi filosofici per far sentire la sua voce. E a me piace ricordare, per concludere, il più “intellettuale” dei personaggi verghiani, Rosso Malpelo, il quale così ammaestra Ranocchio presso la discarica ove giace la carcassa del grigio :

 

Gliele vedi quelle costole al  grigio? Adesso non soffre più. (...) Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche; anch’esso quando piegava sotto il peso, o gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: - Non più! Non più! - Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche, con quella bocca spolpata e tutta denti. Ma se non fosse mai nato sarebbe stato meglio. [23]

 

 

 

 

 

 

Marcello TARTAGLIA

ordinario di Italiano e Latino

  presso il Liceo Scientifico “E. Fermi”

di Bologna

 

 

Articolo pubblicato su “Cultura e scuola

Anno XXXIV, n. 135-136 (luglio-dicembre 1995)

 

 

 



[1]Zib., 165

[2]Zib., 648.

[3]Zib., 3551-52.

[4]Zib., 3847-48.

[5]Zib., 4137.

[6]Zib., 4186.

[7]Zib., 172.

[8]Zib., 3551.

[9]Zib., 3848.

[10]Zib., 3905-3906.

[11]Zib., 829-830.

[12]Zib., 4100.

[13]Zib., 4176-77.

[14]A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung, tr. it. Bari 1984 [1928], p. 409-410.

[15]A. Schopenhauer, ibidem, p. 411-412.

[16]Così Leopardi: “Dunque il più stupido degli uomini è di questi il più felice” (Zib., 3848); “Gli stati d’animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell’animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani.” (Zib., 4186). E così Schopenhauer: “La più elevata forza intellettuale fa proprio costoro [i più intelligenti] capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non possano mai sentire i più ottusi..” (Die Welt..., op. cit., p. 414).

[17]Così Schopenhauer: “Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera tosto sazietà: la meta era solo apparente: il possesso disperde l’attrazione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno.” (Die Welt..., op. cit., p. 414). In Leopardi, come si sa, è un pensiero ampiamente diffuso; basterà ricordarne la formulazione nei Pensieri : “... immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà che si vegga della natura umana. Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento, e pochissimo o nulla agli altri animali.” (Pensieri, LXVIII; cfr. Leopardi, Le poesie e le prose, II, Milano 1968 [1940], p. 42).

[18]P. Calderón de la Barca, La vida es sueño  (atto I, scena II).

[19]A. Schopenhauer, Die Welt..., op.  cit., p. 427.

[20]W. Shakespeare, Hamlet  (atto III, scena I).

[21] cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947.

[22] Mi riferisco alla sua opera più significativa, La persuasione e la rettorica, laddove Michelstaedter, per spiegare lo stato di perenne aspirazione insoddisfatta, sviluppa, con grande efficacia, un esempio tratto da Schopenhauer: quello del peso che, in quanto tale, ha sempre “fame” del punto più basso; e quando non l’avesse più, non sarebbe quello che è, cioè un peso (cfr. A. Schopenhauer, Die Welt..., op. cit., p. 176 e 408; e C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, Milano 1982, pp. 39-40).

[23]G. Verga, Rosso Malpelo, in Opere  (Milano-Napoli 1961, p. 169); sottolineatura mia.