sabato 28 maggio 2016

Marcuse e la scuola di Francoforte (I parte)

Marcuse e la scuola di Francoforte


Indico qui di seguito i titoli delle opere cui si riferiscono le sigle usate nel testo, insieme con la traduzione italiana da cui sono tratte le citazioni.

EU = H. Marcuse, Das Ende der Utopie (La fine dell’utopia, Bari 1968)
OM = H. Marcuse, One-dimensional man (L’uomo a una dimensione, Torino 1967)
EC = H. Marcuse, Eros and Civilization (Eros e civiltà, Torino 1968)
RR = H. Marcuse, Reason and Revolution: Hegel and the Rise of Social Theory (Ragione e rivoluzione, Bologna 1966)
CSR = H. Marcuse, Critica della società repressiva, Milano 1968
EL = H. Marcuse, Essay on liberation (Saggio sulla liberazione, Torino 1969)
DA = M. Horkheimer – T.W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, Philosophische Fragmente (Dialettica dell’illuminismo, Torino 1966)
ER = M. Horkheimer, Eclipse of reason (Eclisse della ragione, Torino 1969)
OPM = K. Marx, Oekonomisch-philosophische Manuskripte aus dem Jahre 1844 (Manoscritti economico-filosofici del 1944, Torino 1968)
DI =  K. Marx - F. Engels, Die Deutsche Ideologie (L’ideologia tedesca, Roma 1958)
MIA = S. Freud, Massenpsycologie und Ich-Analyse (Psicologia delle masse e analisi dell’Io, Milano 1991)
ZI = S. Freud, Die Zukunft einer Illusion (L’avvenire di un’illusione, Milano 1991)
UK = S. Freud, Das Unbehagen in der Kultur (Il disagio della civiltà, Milano 1991)
JL = S. Freud, Jenseits des Lustprinzips (Al di là del principio del piacere, Varese 1995)
FZP = S. Freud, Formulierungen über die zwei Prinzipien des psychischen Geschehens (Precisazioni sui due principi dell'accadere psichico, Roma 1992)
ÄEM = F. Schiller, Über die ästetische Erziehung des Menschen, in einer Reihe von Briefen (Dell’educazione estetica dell’uomo, in una serie di lettere, Torino 1951)

Nascita e vicende della scuola

L’Istituto per le ricerche sociali (Institut für Sozialforschung) di Francoforte si apre nel febbraio del 1923 (per iniziativa di Felix Weil, di ricca famiglia ebraica, il cui padre, Hermann, finanzia l’operazione) e riunisce attorno a sé un gruppo di giovani studiosi, interessati ad approfondire alcune questioni teoriche connesse al pensiero marxista (si tratta di economisti, come Grossmann e Friedrich Pollock, sociologi della letteratura, come Leo Löwenthal, studiosi delle società asiatiche, come Wittfogel, ecc.; più tardi entreranno a farne parte i vari Horhheimer, Adorno, Marcuse, Fromm, Benjamin; più tardi ancora Jurgen Habermas). Sono gli anni della repubblica di Weimar, della recente rivoluzione russa e quindi delle accese discussioni fra le diverse anime della sinistra europea.
Nel 1931 Horkheimer assume la direzione dell’istituto. La Rivista per la ricerca sociale (Zeitschrift für Sozialforschung) diventa lo strumento di diffusione internazionale di quella che sarà chiamata la “teoria critica della società” della scuola di Francoforte. Marcuse, già assistente di Heidegger a Friburgo, entra a far parte dell’Istituto nel 1932.
Nel marzo del 1933 (Hitler è stato nominato cancelliere del Reich nel gennaio) l’Istituto viene chiuso per “tendenze ostili allo Stato”. Horkheimer ed altri vengono espulsi dall’università. L’Istituto si trasferisce a Ginevra.
Nel 1934 c’è il trasferimento a New York, presso la Columbia University (a Ginevra, come a Londra e a Parigi, continueranno ad esserci delle “succursali”), dove l’Istituto opererà fino alla fine della II guerra mondiale. Si portano avanti gli Studi sull’autorità e la famiglia.
Nel 1949 viene ripristinata la sede dell’Istituto a Francoforte. Tornano Horkheimer, Adorno (che diventa prima vicedirettore, poi co-direttore), Pollock. Restano negli USA Marcuse, Fromm (che peraltro aveva già abbandonato l’Istituto per divergenze ideologiche), Löwenthal e altri (Benjamin era morto suicida nel 1940).
La fine degli anni sessanta rappresenta il momento di massima diffusione delle idee elaborate dall’Istituto (soprattutto di Marcuse, ma non solo: si pensi al successo di un libro come Dialettica dell’illuminismo, peraltro uscito nel 1947); ma è anche l’inizio della fine, perché di lì a poco muoiono Adorno (1969), Horkheimer (1973), Marcuse (1979).

Marcuse: le componenti del suo pensiero


Fra costoro, Marcuse è stato una bandiera della contestazione studentesca, in Europa e in America, alla fine degli anni ’60. Il suo pensiero, particolarmente quello espresso nella sua opera allora più famosa, One-dimensional man (1964), sembrava dare voce al malessere avvertito da quella generazione, e quindi al rifiuto (al Grande Rifiuto, secondo la sua espressione) dell’appiattimento (appunto, della “uni-dimensionalità”) nella società della mercificazione totale. L’estetica di Marcuse, il suo pensiero sull’arte, non è una parte separata del suo pensiero, un aspetto secondario rispetto alla centralità della critica della società industriale avanzata. E’ invece un aspetto fondamentale, che fa luce sulla sua teoria critica e da questa, a sua volta, è illuminato. Parlarne, quindi, vuol dire parlare degli snodi essenziali del suo pensiero. Ed è un pensiero in cui confluiscono il marxismo, la teoria degli istinti (o metapsicologia) freudiana, la filosofia intesa come dialettica o pensiero negativo, una certa concezione dell’arte.

L’idea fondamentale: la fine dell’utopia

Al centro c’è questa idea: l’enorme sviluppo tecnologico che caratterizza la nostra società consentirebbe una vita libera, bella e giocosa per l’umanità (consentirebbe cioè il passaggio alla cosiddetta dimensione ludico-estetica), se non fosse che gli interessi costituiti, i detentori del potere reale, intendono conservare a proprio vantaggio la situazione esistente, basata sull’oppressione e sul dominio. In altre parole, Marcuse anticipava quello slogan che oggi ha tanta fortuna presso i cosiddetti no-global: un mondo diverso è possibile, e cioè: l’utopia è a portata di mano, non è più un sogno, può essere realizzata qui ed ora (è “finita”, diceva il titolo di un’altra sua opera: Das Ende der Utopie)[1]:

L’automazione integrale nel regno della necessità farebbe del tempo libero la dimensione in cui primariamente si formerebbe l’esistenza privata e sociale dell’uomo. Si avrebbe così la trascendenza storica verso una nuova civiltà (OM, p. 56).
Oggi esistono tutte le forze materiali e intellettuali necessarie per realizzare una società libera. Il fatto che non vengano utilizzate è da ascrivere esclusivamente ad una sorta di mobilitazione generale della società, che resiste con ogni mezzo alla eventualità di una propria liberazione. Ma questa circostanza non basta assolutamente a rendere utopistico il progetto della trasformazione (EU, p. 12)

“Una sorta di mobilitazione generale della società, che resiste con ogni mezzo alla eventualità della propria liberazione”: dunque, oltre agli interessi costituiti, c’è un’inerzia del sistema che tiene vincolate a sé anche le vittime del sistema, una sua pietrificazione tale per cui il suo superamento non può essere pensato come un momento progressivo, un passo in più sulla stessa strada, ma come una rottura traumatica, rivoluzionaria, come (sono parole sue) la “catastrofe della liberazione”. Noi siamo come Ulisse e i suoi marinai, al momento del passaggio nei pressi dello scoglio delle Sirene[2]. Il canto delle Sirene non è altro che il richiamo di un mondo diverso da quello esistente, il mondo della soddisfazione, che si oppone a quello del sacrificio e della rinuncia. Ma quel richiamo i marinai non lo possono sentire, a loro è ordinato di turarsi le orecchie con la cera: piegati sui remi, continuano a lavorare, sul loro lavoro si fondano i rapporti sociali esistenti, è bene che non sappiano che un mondo diverso è possibile. Il signore, Ulisse, può sentire quel canto, ma si è fatto legare all’albero maestro: può sentirne la bellezza e la promessa di felicità, ma non può abbandonarsi ad esso, perché vorrebbe dire perdere il proprio “sé”, annullare la propria identità faticosamente costruita in opposizione alla natura, perdersi nella comunione con il tutto.

Marx e Freud interpretati alla luce della “fine dell’utopia”

La “fine dell’utopia”, nel senso suddetto, era già implicita, secondo Marcuse, tanto nel pensiero di Marx quanto in quello di Freud, malgrado il primo avesse rivendicato proprio contro gli “utopisti” il proprio carattere “scientifico”[3], e il secondo avesse sempre negato prospettive radiose per l’umanità.  Era dunque una rilettura problematica e polemica quella che Marcuse faceva di Marx e Freud. Problematica e polemica, perché fu proprio su questo suo modo di interpretare il pensiero di Marx e quello di Freud che si espressero forti dissensi e si scatenarono controversie su chi fosse fedele all’ortodossia e chi invece la tradisse. E sarà interessante notare una analogia di fondo per quanto riguarda l’operazione interpretativa attuata da Marcuse nei confronti dei due autori: in entrambi i casi si recuperano certe premesse, dimenticate o trascurate, del loro pensiero e si mostra come esse contrastino con le conclusioni, come quelle premesse possano (e debbano) condurre a conclusioni diverse (le conclusioni, appunto, che consentono di confermare, sia in chiave marxista che psicanalitica, la possibilità attuale della “fine dell’utopia”).

La rilettura di Marx

Per quanto riguarda il marxismo, dirò brevemente che Marcuse accusa Marx di aver rinunciato, nello sviluppo del suo pensiero, alle implicazioni ben più radicali presenti nei suoi scritti giovanili (particolarmente nei Manoscritti economico-filosofici del 1844).[4] Negando la possibilità di un superamento del “regno della necessità” (negando la possibilità che il lavoro socialmente necessario possa diventare “lavoro attraente”), Marx si sarebbe

tirato indietro spaventato di fronte alla necessità di ipotizzare una società in cui il lavoro diventi gioco, in cui persino il lavoro socialmente necessario possa venire organizzato in armonia con i bisogni istintuali e con le inclinazioni degli uomini (EU, p. 18)

Analogo, in merito, è il pensiero di Adorno e Horkheimer che sostengono

del regno della necessità lo stesso socialismo ha ammesso troppo presto l’eternità in omaggio al common sense reazionario. Elevando la necessità a ‘base’ per tutti i tempi avvenire, e degradando lo spirito – alla maniera idealistica – a vetta suprema, esso ha conservato troppo rigidamente l’eredità della filosofia borghese” (DA, p. 49).

E invece, secondo Marcuse, è possibile rintracciare all’interno dello stesso pensiero di Marx (nei suddetti Manoscritti, ma anche nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, meglio noti come Grundrisse), la prospettiva di un superamento del regno della necessità, ovvero della realizzazione di un rapporto uomo-natura non mediato dal lavoro alienato e faticoso. Nei Manoscritti Marx parla, con una terminologia che non nasconde la sua origine hegeliana, del lavoro come di un’attività “libera e cosciente”, che ha a che fare non tanto con la lotta per l’esistenza, quanto con lo sviluppo della natura umana, con il problema dell’autorealizzazione:

L’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé e per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’impero del bisogno fisico, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente solo quando è libero da esso… il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo il bisogno e la misura della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza. (MEF, p,.78-79)

In questa luce si possono ben comprendere le radicali, escatologiche, affermazioni ritrovabili ne L’ideologia tedesca: le classi devono essere abolite

attraverso l’abolizione della proprietà privata e dello stesso lavoro (DI, p. 51)… La rivoluzione comunista è diretta contro la precedente forma di attività, essa abolisce il lavoro (DI, p. 68)… Il problema non consiste nella liberazione del lavoro, ma nella sua abolizione (DI, p.198).

Ora, il termine marxiano che viene tradotto con “abolizione” è Aufhebung, e questo termine contiene, oltre e insieme al significato di “abolizione”, anche quello di “inveramento” (precisamente, “restaurazione del contenuto alla sua vera forma”): dunque, l’espressione “Aufhebung del lavoro” significa contemporaneamente “abolizione” di quella attività che è chiamata lavoro nella società storicamente data, ed “inveramento” del lavoro nella forma di quella attività che è libera e cosciente manifestazione di sé. E’ questa la possibilità che il pensiero di Marx lascia intravedere, prima di arrendersi al “common sense reazionario”, secondo l’espressione di Adorno e Horkheimer; ed è una possibilità concepita non come una ingenua (russoviana) regressione allo “stato di natura”, ma (nei Grundrisse se ne trova la conferma) come un salto compiuto al culmine della civiltà, consentito proprio dall’alto sviluppo tecnologico.

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[1] Si tratta di un volume che raccoglie la relazione di Marcuse, e il successivo dibattito con gli studenti, nel luglio del 1967 presso la Libera Università di Berlino.
[2] Faccio riferimento ad un esempio reso famoso dall’interpretazione che ne hanno dato Adorno ed Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo
[3] Come è detto chiaramente ne L’ideologia tedesca,  il marxismo si definisce scientifico in quanto non progetta un ideale stato futuro, ma analizza le contraddizioni che conducono al superamento dello stato presente
[4] Con Soviet Marxism (1958) l’accusa si estendeva, in maniera ben più clamorosa, al marxismo sovietico, colpevole di aver realizzato, nella teoria e nella pratica, una forma abnorme di capitalismo di stato, in cui erano acuiti al massimo grado i mali della società industriale avanzata.

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