sabato 28 maggio 2016

Marcuse e la scuola di Francoforte (II parte)

La rilettura di Freud

La rilettura di Freud è forse uno degli aspetti più interessanti e originali del pensiero di Marcuse, e vale dunque la pena di soffermarcisi. Precisamente, è Eros and Civilization (1955) l’opera con cui Marcuse intende dimostrare le conseguenze radicalmente rivoluzionarie desumibili dalla teoria degli istinti (o metapsicologia) freudiana. E’ appunto questo il Freud che interessa Marcuse: non il medico che si serve della psicanalisi a fini terapeutici, ma il filosofo che formula ipotesi sulla natura degli istinti, sulle origini della civiltà, sul rapporto fra individuo e organizzazione sociale.
Ora, se si leggono testi come Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921), L’avvenire di un’illusione (1927) o Il disagio della civiltà (1930), si vede come Freud ritenesse irreversibile il processo repressivo della civiltà, come, per lui, repressione e conseguente infelicità fossero connaturate all’esistenza umana. Ogni qualvolta considera le prospettive future dell’umanità, Freud è decisamente scettico:

Sembra piuttosto che ogni civiltà debba edificarsi sulla coercizione e sulla rinuncia pulsionale… Si deve, a mio parere, tener conto del fatto che in tutti gli uomini sono presenti tendenze distruttive, e perciò antisociali e ostili alla civiltà. (ZI, p. 147)
Mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione (UK, p. 280).

La necessità della civiltà repressiva è il fulcro di tutta la costruzione teorica freudiana: la civiltà nasce e si fonda sulla stessa necessità di reprimere la tendenza degli istinti alla propria soddisfazione incontrollata; su questa repressione vengono garantiti l’ordine e il progresso, ma gli individui pagano col prezzo della infelicità: dietro l’ordine si cela, in antagonismo ineliminabile, “das Unbehagen in der Kultur” (il disagio della civiltà).
E qui, per capire la questione, bisogna addentrarsi un po’ nella teoria freudiana, secondo cui esistono due istinti (o pulsioni, Trieb) fondamentali, che vengono indicati con il nome di Eros (l’istinto di vita) e di Thanatos (l’istinto di morte): sono questi gli istinti che vengono necessariamente repressi, perché altrimenti scaricherebbero la loro energia in maniera distruttiva per la società; la repressione di Eros si realizza in modo che la sua energia venga impiegata per la costruzione della Kultur[5]; la repressione di Thanatos fa sì che la sua energia venga scaricata contro se stessi, nella forma del Super-io e del connesso senso di colpa[6].

Freud contro Freud

Ma Marcuse mette Freud contro Freud, sostiene cioè che, dalle stesse premesse che Freud ha posto, si può e si deve arrivare a conclusioni diverse. Tenendo conto del fatto che le opere metapsicologiche di Freud testimoniano di una ricerca continua, che procede per precisazioni successive, in definitiva non conclusa, per Marcuse si tratta di far luce (e leva) su alcune contraddizioni, irrisolte nel pensiero freudiano: l’affermazione sul carattere asociale ed antisociale degli istinti con l’affermazione che la natura degli istinti è “storicamente acquisita”; l’affermazione sull’eterna conflittualità fra “principio del piacere” e “principio della realtà” [7] con l’affermazione che il conflitto è causato da Anànke (bisogno, necessità della lotta per l’esistenza). In altre parole

Il conflitto tra principio del piacere e principio della realtà è inconciliabile al punto da rendere necessaria la trasformazione in senso repressivo della struttura istintuale dell’uomo? O consente invece il concetto di una civiltà non repressiva, basata su un’esperienza dell’essere fondamentalmente diversa, su un rapporto fondamentalmente diverso fra uomo e natura e su relazioni esistenziali fondamentalmente diverse? (EC, p. 52)

In Al di là del principio del piacere (1920) Freud, considerando la formazione degli istinti, aveva individuato tre fasi distinte: aveva parlato, riferendosi ad un ordine di storia geologico-biologico, di un originario impulso alla regressione (relativamente allo stesso presentarsi della vita organica), di una successiva differenziazione dell’impulso in Eros e Thanatos (determinata da “fattori esterni”, eventi geologici), e infine, riferendosi ad un ordine sociologico di storia, di un’altra decisiva modificazione degli istinti alle soglie della civiltà, imposta dalla presenza dell’Anànke, per cui Eros viene sia sublimato che organizzato produttivamente, mentre Thanatos viene trasformato in aggressività socialmente utile e in morale.
Qui si ferma Freud e di qui parte Marcuse, cominciando col rilevare che fra le origini della civiltà e la sua fase attuale c’è una differenza tale (l’Anànke stata notevolmente ridotta) da legittimare l’ipotesi di un’altra grande svolta possibile: nel senso di una liberazione degli istinti che non comporti distruzione e regressione alla barbarie. In altre parole, se è vero, come Freud dice ripetutamente, che è l’Anànke a imporre la repressione degli istinti (o meglio: la loro organizzazione secondo il principio di realtà), ne consegue che, nello sviluppo storico, man mano che si riduce l’Anànke, si riduce anche la conflittualità fra principio del piacere e principio della realtà, fino a consentire la liberazione degli istinti (o meglio: la loro organizzazione secondo un principio della realtà non in contraddizione col principio del piacere).

La liberazione di Eros e la “neutralizzazione” di Thanatos

Per quanto riguarda Eros, ciò vorrebbe dire non solo un recupero del carattere “polimorfo e perverso” della sessualità pregenitale, ma anche un suo espandersi in “relazioni libidiche di lavoro”, tale, cioè, da rendere lo stesso processo lavorativo terreno di soddisfazione della libido. Si tratta di una possibilità intravista dallo stesso Freud, sia nel Disagio della civiltà che in Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921):

Nei rapporti sociali tra gli uomini accade la stessa cosa che l’indagine psicanalitica ha scoperto nell’evoluzione della libido individuale: la libido s’appoggia al soddisfacimento dei grandi bisogni vitali e, quali propri primi oggetti, sceglie le persone che vi concorrono. E, come nel singolo, anche nell’evoluzione dell’intera umanità solo l’amore ha operato da fattore di incivilimento trasformando l’egoismo in altruismo… ciò costituisce una prova persuasiva del fatto che l’essenza della formazione collettiva consta di legami libidici di tipo nuovo fra i membri della massa. (MIA, p. 99)

In questa prospettiva, lo stesso spauracchio dell’impulso alla distruzione (lo scatenamento della destrudo) sembra non essere più tale, se lo consideriamo, come è, una espressione dell’istinto di morte (Thanatos), il quale a sua volta opera in fusione (in maniera complementare) con l’istinto di vita (Eros). Questo vuol dire che uno sviluppo non repressivo della libido (l’energia di Eros) deve necessariamente alterare le manifestazioni della destrudo (l’energia di Thanatos). E questo sembra essere il senso della speranza con cui si concludeva Il disagio della civiltà:

E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale (UK, p. 280)

Eros e Thanatos nell’“inno a Venere” di Lucrezio

A questo proposito, mi viene in mente un poeta latino, molto lontano nel tempo, dunque, da Freud e da Marcuse, e tuttavia capace, mi è sempre sembrato, di dare della problematica appena esposta una rappresentazione poetica di immediata comprensione. Mi riferisco a Lucrezio, e precisamente a quell’inno a Venere con cui dà inizio al suo poema, De rerum natura. Ricordate? C’è la guerra, dice Lucrezio, e bisogna che le armi tacciano perché il poeta possa scrivere i suoi versi e il lettore ascoltarli. Dunque implora Venere, la divinità dell’amore, perché con il suo fascino, con la sua capacità di seduzione, trattenga Marte, la divinità della guerra, e gli impedisca di scatenarsi sui campi di battaglia. E’ un’immagine memorabile: il dio ha posato il suo capo sul grembo di Venere e, vinto dall’eterna ferita d’amore (aeterno devictus vulnere amoris), a bocca aperta (inhians), respirando il respiro della dea (eque tuo pendet resupini spiritus ore), fissa su di lei il suo sguardo bramoso (pascit amore avidos visus). L’idea di Lucrezio è che solo la forza dell’amore possa annullare, o almeno indebolire, la forza della guerra, della distruzione, della morte. Non mi pare difficile riconoscere in Venere e Marte le due potenze celesti di cui parla Freud, e, analogamente, come, per Lucrezio, solo Venere può frenare Marte, così Freud è convinto che solo Eros può bloccare la potenza distruttiva di Thanatos.

La liberazione di Thanatos

Ma Marcuse dice qualcosa di più sulla liberazione di Thanatos, sulla possibilità che tale istinto si soddisfi in maniera né aggressiva né auto-punitiva. Bisogna partire dall’idea espressa da Freud in Al di là del principio del piacere, secondo cui la meta di Thanatos è la regressione al Nirvana, ovvero a quello stato di quiete e non dolore che esisteva prima della nascita[8]. In altre parole, la tendenza propria dell’istinto di morte sarebbe quella di ripristinare le condizioni inorganiche che hanno preceduto il sorgere della vita.  Così in Al di là del principio del piacere:

L’essere vivente elementare sarebbe rimasto volentieri immobile sin dall’inizio della sua esistenza, non avrebbe chiesto di meglio che di condurre un genere di vita uniforme, in condizioni invariabili… A un certo momento l’intervento di una forza, sulla cui natura non possiamo farci alcuna idea, ha risvegliato nella materia inanimata le caratteristiche della vita… La tensione che allora si produsse in una sostanza, fino a quel momento inanimata, cercò di autoeliminarsi: così nacque la prima pulsione: quella di tornare allo stato inanimato (JL, pp. 92-93)
 La tendenza predominante della vita psichica, e forse del sistema nervoso in genere, consiste nello sforzo di ridurre, di mantenere costante o di sopprimere la tensione interna prodotta dagli stimoli (principio del nirvana, per usare l’espressione di Barbara Low)… e il riconoscere questo fenomeno è per noi una delle più valide ragioni per credere nell’esistenza delle pulsioni di morte (JL, p. 121)

Ciò vuol dire che Thanatos aspira alla fine della vita fin tanto che la vita è sinonimo di tensione, insoddisfazione, dolore. Ma proprio per questo è possibile progettare la riconciliazione del principio del Nirvana con un principio della realtà entro il quale l’esistenza sia stata portata ad un livello di completa soddisfazione. Si può dunque concludere, per Marcuse, che è possibile una liberazione di Eros non in contraddizione con il vivere sociale, ed è possibile una liberazione di Thanatos che non significhi un suo scatenamento distruttivo.

La dimensione estetica: Orfeo e Narciso contro Prometeo

Tale liberazione lascia intravedere la possibilità di un mondo diverso, un mondo non più caratterizzato dalla repressione e dal dominio, ma finalmente libero, bello e piacevole: si tratta di quella “dimensione estetica” che viene tratteggiata nei capitoli finali di Eros e civiltà. Marcuse individua nelle figure mitologiche di Orfeo e Narciso i due archetipi che significano un ordine di vita non repressivo, un ordine in cui, mediante il gioco e la bellezza, si conciliano istinti e ragione, principio del piacere e principio della realtà.
Orfeo e Narciso si contrappongono a Prometeo: quest’ultimo è l’eroe civilizzatore, è il simbolo della produttività, della lotta faticosa per l’esistenza, e quindi anche della repressione (si veda come nella Teogonia e nelle Opere e i giorni di Esiodo, parlando del mondo di Prometeo, si presenti Pandora, il principio femminile che richiama la sessualità e il piacere, come una maledizione disgregatrice e distruttiva: nel mondo del lavoro, che è quello prometeico, la bellezza della donna, e la felicità che essa promette, sono elementi fatali)[9]. Orfeo invece è il poeta, il cui canto smuove le foreste e le rocce, placa gli animali, pacifica la natura; Narciso è il giovinetto che trova la morte amando la propria immagine riflessa dall’acqua; Marcuse (recuperando il concetto freudiano di “narcisismo primario”[10]) lo interpreta come il simbolo non della patologia che tutti approssimativamente conosciamo, ma di un Eros diverso, un Eros che implica la sua riconciliazione con Thanatos. Leggiamo le sue parole:

quando Narciso disprezza l’amore dei cacciatori e delle ninfe, egli rifiuta un Eros per un altro. Egli vive in virtù di un Eros proprio, ed egli non ama soltanto se stesso. Egli non sa che l’immagine che egli ammira è la sua. Se il suo atteggiamento erotico è affine alla morte e porta morte, il riposo e il sonno e la morte non sono dolorosamente separati e distinti: il principio del Nirvana governa tutti questi stati. E, morto, continua a vivere come il fiore che porta il suo nome. (EC, pp. 189-90)

E dunque Orfeo e Narciso diventano il simbolo di un mondo liberato, un mondo in cui l’unico fine delle cose è di essere quello che sono (le cose non sono usate strumentalmente dall’uomo per un fine diverso da quello che è il loro puro esistere):

Alberi e animali rispondono al canto di Orfeo; la primavera e la foresta rispondono al desiderio di Narciso. L’eros orfico e narcisistico risveglia e libera potenzialità che sono reali in oggetti animati e inanimati, nella natura organica e inorganica – reali ma rimossi, in una realtà non-erotica. Queste potenzialità circoscrivono il telos inerente in esse come non essere altro che quelle che sono, esserci, esistere. L’esperienza orfica e narcisistica del mondo nega ciò che il mondo del principio di prestazione sostiene. L’opposizione tra uomo e natura, soggetto e oggetto, è superata. L’esistere è inteso come soddisfazione che unisce uomo e natura, in modo che la realizzazione dell’uomo sia allo stesso tempo la realizzazione, senza violenza, della natura. Nel fatto che si parli ad essi, che siano amati e curati, gli alberi e i ruscelli e gli animali appaiono come quello che sono: belli, non soltanto per coloro che parlano con essi e li guardano, ma in se stessi, oggettivamente… Nell’eros orfico e narcisistico, questa tendenza si libera: gli oggetti della natura diventano liberi di essere ciò che sono… Il canto di Orfeo placa il mondo animale, riconcilia il leone con l’agnello e il leone con l’uomo. Il mondo della natura è un mondo di oppressione, crudeltà e dolore, com’è il mondo umano; come quest’ultimo, esso aspetta la sua liberazione. Questa liberazione è l’opera di Eros. Il canto di Orfeo infrange la pietrificazione, fa muovere le foreste e le rocce – ma le muove per farle partecipi della gioia (EC, p. 188-189).

Orfeo e Narciso, ovvero il mito dell’età dell’oro

Rileggiamo queste parole: si parla del superamento della opposizione fra uomo e natura, fra soggetto e oggetto, si parla di una finalità (un telos) intrinseca alle cose che è il loro puro esistere, si parla di una bellezza che è inerente al puro esistere delle cose; ma si parla anche della riconciliazione del leone con l’agnello e del leone con l’uomo, si parla di un mondo della natura che aspetta la sua liberazione. Io sento qui l’eco di un mito antichissimo, che percorre la civiltà occidentale e che sembra ripresentarsi, nel cuore del Novecento, in queste formulazioni marcusiane: è il mito dell’età dell’oro, con il quale l’uomo ha immaginato un rapporto pacificato con la natura, una condizione priva di dolore e di fatica. E’ un mito che risale ad Esiodo (VII sec. a. C., che vuol dire gli albori della cultura greca, dunque occidentale), ma che forse ricorderete nella versione che ne dà Virgilio, nella IV Ecloga e poi nel I libro delle Georgiche. Lì si parla non solo di una terra che produce spontaneamente e abbondantemente, senza bisogno di lavoro, (ipsaque tellus / omnia liberius nullo poscente ferebat) ma anche di serpenti che non hanno veleno (Giove, in seguito malum virus serpentibus addidit atris), di lupi che non predano (sempre Giove praedari lupos iussit), di un mondo perduto (ma, per Virgilio, prossimo a tornare), il mondo governato da Crono (il Saturno latino), cui si contrappone il mondo governato da Zeus-Giove, ovvero il mondo fondato dall’atto prometeico del “far sprizzare il fuoco nascosto nelle vene della pietra” (ut silicis venis abstrusum excuderet ignem), del “tentare Teti con le navi” (temptare Thetin ratibus) e del “mutare le merci” (ovvero, del commerciare). Dunque è un’utopia antica che sembra tornare nel pensiero di Marcuse.

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[5] Questa parola in tedesco indica il complesso di valori e ideali propri della “civiltà” (laddove Zivilisation indica piuttosto il progresso in senso tecnico e materiale).
[6] per Super-io si intende quella parte della psiche che si è formata a seguito di una sorta di introiezione della figura paterna, e quindi rappresenta, nell’interiorità dell’individuo, l’insieme dei precetti morali, il senso del dovere, su cui il padre vigila e punisce; la sua crescita, che Freud analizza nel Disagio della civiltà, implica la crescita del senso di colpa in misura sempre meno tollerabile.
[7] I due principi indicano, rispettivamente, la tendenza degli istinti ad una soddisfazione immediata, senza tenere in alcun conto i dati obiettivi della realtà (secondo le modalità di funzionamento dell’inconscio proprie del “processo primario”), e la presa d’atto, da parte della coscienza, dei dati di realtà, quindi della necessità di rinunciare o di differire o di trasformare la soddisfazione (secondo le modalità del cosiddetto “processo secondario”).
[8] Con l’espressione “principio del Nirvana” Freud intende appunto quella tendenza psichica a mantenere costante (in senso simile usa anche l’espressione “principio di costanza”), a ridurre e a sopprimere gli stati eccitazione (analogamente a ciò che il Nirvana indica nel buddismo, ovvero la cessazione del dolore in conseguenza dell’annullamento del desiderio).
[9] Secondo la Teogonia, Pandora è creata, per volontà di Zeus, da Atena e da Efesto, con la collaborazione delle altre divinità. E’ dotata pertanto di straordinarie grazia e bellezza, ma anche, per intervento di Ermes, di furbizia e abilità menzognera. Zeus la invia come punizione agli uomini, per vendicarsi di Prometeo, che aveva loro donato il fuoco, dopo averlo sottratto agli dei. Nelle Opere e i giorni la negatività di Pandora è accresciuta con un altro elemento: è lei che, per curiosità “femminile”, apre il vaso dentro cui erano custoditi tutti i malanni, che quindi si diffondono per il mondo con danno perenne per l’umanità.
[10] Freud ne parla (con qualche oscurità concettuale, che denota lo sforzo dell’elaborazione: si veda Introduzione al narcisismo, 1914) come di una fase del normale sviluppo della libido, che precede quella in cui la libido si rivolge all’esterno, ed è caratterizzata dal fatto che l’Io è oggetto, contemporaneamente, delle pulsioni sessuali e di quelle di autoconservazione (riconducibili, queste ultime, alle pulsioni di morte).

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