giovedì 1 maggio 2025

ATTUALITA' : GUERRA E PACE

 

Aspirazione alla pace e realtà delle guerre

 

Diceva Moravia che l’uomo dovrebbe introiettare il tabù della guerra così come ha introiettato il tabù dell’incesto. Come non essere d’accordo, soprattutto oggi che una guerra combattuta con le armi nucleari provocherebbe l’autodistruzione dell’intera umanità? Eppure per millenni le guerre si sono combattute e tuttora si combattono, per millenni i popoli si sono armati e tuttora si armano, incapaci di introiettare il tabù della guerra, anche se consapevoli che la guerra porta morte e distruzione.

La ragione di ciò, a mio parere, è piuttosto semplice. Al mondo ci sono uomini miti e uomini violenti, uomini pacifici e uomini prepotenti, uomini rispettosi delle regole del vivere civile e uomini che non si fanno scrupolo di violare tali regole. Per quale ragione se non per questa le comunità si sono sempre dotate di forze dell’ordine? Se non ci fossero le forze dell’ordine i miti e pacifici sarebbero sopraffatti dai violenti e prepotenti, non varrebbe la ragione contro il torto, varrebbe la ragione del più forte. Le forze dell’ordine garantiscono, per quanto possibile, che questo non accada, la loro presenza distoglie, per quanto possibile, i violenti e prepotenti dalla loro intenzione di imporsi sui miti e pacifici.

Questo discorso si può estendere al rapporto fra gli Stati. Io non credo che esistano popoli aggressivi e popoli pacifici per natura, credo anzi che tutti i popoli, nella grande maggioranza, siano amanti della pace. Credo però che negli Stati, particolarmente (ma non solo) in quelli in cui non vigono le regole della democrazia, si possano imporre gruppi dirigenti, governi, avidi di conquista, teorici della supremazia e dunque minacciosi nei confronti di altri Stati. Questa è la ragione per cui anche gli Stati che ripudiano la guerra si devono dotare di forze armate in funzione difensiva. Le forze armate fungono da deterrenza nei confronti di Stati che hanno intenzioni aggressive, così come, all’interno di uno Stato, le forze dell’ordine fungono da deterrenza nei confronti di individui violenti e prepotenti.

Naturalmente mantenere le forze armate, così come mantenere le forze dell’ordine, ha un costo e tutti noi vorremmo che i soldi, invece di spenderli per le armi, si spendessero per la sanità e l’istruzione. Pace e disarmo sono una nobile e sacrosanta aspirazione, purtroppo però, dopo millenni di storia mi pare che non esistano ancora le condizioni per realizzarla. Io spero che tutti i popoli, tutti, a mio avviso, in maggioranza ostili alla guerra, facciano valere il loro desiderio di pace e che, progressivamente, si possano ridurre le spese per la difesa e impiegare le risorse economiche e le energie intellettuali non per armarsi sempre più e sempre meglio, ma per bonificare i deserti, combattere la fame nel mondo, contrastare i terremoti, diffondere l’istruzione, curare le malattie mortali.

Aggiungo un piccolo corollario. Ho sentito dire, da Travaglio e da Orsini, che se hai le armi finirai per usarle. A me questa pare una sciocchezza. E’ vero che Cechov affermò che se nel primo atto di una dramma teatrale si vede un fucile appeso al muro, è sicuro che al terzo atto sarà usato. Ma una cosa è la tecnica narrativa teatrale, altra cosa è il susseguirsi degli eventi nella vita reale. Certo, le armi possono e devono essere usate se ci si deve difendere da un’aggressione. Ma al di fuori di questa possibilità – quando le armi hanno solo la funzione di deterrenza e il fine della difesanon c’è alcuna logica per cui esse finirebbero comunque per essere usate.


martedì 29 aprile 2025

ASPETTI CONTROVERSI DELLA DIVINA COMMEDIA (I parte)

 

L’incipit della Commedia: lo smarrimento nella “selva oscura”

1)    Tutti conosciamo l’incipit della Commedia, conosciamo la prima terzina. Ma forse non ci chiediamo perché “la diritta via era smarrita”, di quali peccati si sentiva colpevole Dante, peccati per i quali dice di trovarsi in “una selva oscura”, “una selva selvaggia e aspra e forte” che al solo pensarci “rinova la paura”.

Lo smarrimento come traviamento spirituale (la “donna gentile”)

2)    Non c’è dubbio che qui ci sia un riferimento autobiografico al traviamento spirituale seguito alla morte di Beatrice. Secondo una interpretazione, il traviamento di Dante sarebbe riconducibile alla sua passione per la filosofia, identificata allegoricamente con la cosiddetta donna gentile”. Chi è questa “donna gentile”? E’ colei di cui nella Vita nova Dante dice che era “giovane e bella molto”, aveva avuto compassione per la sua sofferenza e lo aveva consolato con il suo amore dopo la morte di Beatrice. Dunque si tratterebbe, da parte di Dante, di un vero e proprio innamoramento che poi viene in qualche modo nobilitato con l’identificazione donna gentile-filosofia.  

3)    Qui si rende necessario un inciso. Sono diverse le donne che compaiono nell’opera letteraria di Dante, oltre alla “donna gentile”, le due donne “dello schermo” nella Vita nova, e altre donne cui si fa riferimento nelle Rime (una “donna petra” e una “pargoletta”). Sono donne reali, come reale è Beatrice, donne realmente amate da Dante, il quale poi nella rielaborazione dei ricordi ha attribuito loro dei significati allegorici. Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante dice che il suo amore per Beatrice fu “onestissimo” “né mai apparve alcun libidinoso appetito”. Tuttavia, parlando del carattere di Dante, aggiunge, scusandosi di macchiare la sua fama citando una suo difetto:

Tra cotanta virtù, cotanta scienzia, quanto dimostrato è (di sopra) essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi.

4)    Dunque è da credere che la vicenda che ha per protagonista la “donna gentile”, sia una vicenda autobiografica per Dante. E la stessa “donna gentile” è poi ricordata nel Convivio, dove è esplicitamente identificata con la filosofia, cioè con la scienza umana, mentre Beatrice era identificabile con la teologia, ovvero la scienza divina. Quindi l’amore per la “donna gentile”, cosiccome la passione per la filosofia, appaiono come un tradimento di Beatrice, un tradimento che nasce – è da credere – sul piano dell’amore per la persona, ma che poi viene trasferito sul piano dei significati allegorici. E infatti già nella Vita nova (XXXIX) Dante ha una visione di Beatrice e tanto gli basta per rimproverare a se stesso il “malvagio desiderio” che occupa la sua mente per la “donna gentile”.

Il rimprovero di Beatrice nell’Eden e il senso del viaggio

5)    E di tale “malvagio desiderio” Beatrice in persona lo rimprovererà duramente nel loro incontro nel Paradiso terrestre, in cima alla montagna del Purgatorio. Gli dice esplicitamente: tu mi hai tradito, ti sei concesso “altrui”, hai mosso i tuoi passi “per via non vera / immagini di ben seguendo false (Pg. XXX, 121-145). E Dante piangendo ammette la sua colpa.

6)    Dunque, se si accetta questa interpretazione, il viaggio oltremondano di Dante non sarebbe altro che un ritorno a Beatrice, ovvero un riconoscimento dei limiti della filosofia separata dalla fede, un riconoscimento che oltre le capacità di conoscenza della ragione umana c’è una verità rivelata, una verità di fede, altrimenti – come dice Virgilio in un passo del Purgatorio – “mestier non era parturir Maria”, cioè non sarebbe stato necessario che Cristo nascesse, non ci sarebbe stato bisogno che la verità fosse rivelata.

Il senso del rimprovero di Beatrice

7)    Ed è questo che Beatrice sembra rimproverare a Dante quando scende dal cielo e lo incontra in cima alla montagna del Purgatorio; Dante le chiede (Pg. XXXIII, 82-90):

Ma perché tanto sovra mia veduta

vostra parola disïata vola,

che più la perde quanto più s’aiuta?".

 

E cioè, perché le tue parole sono così difficilmente comprensibili per me, per quanto mi sforzi di capire? E Beatrice risponde:

"Perché conoschi", disse, "quella scuola (la filosofia)

c’ hai seguitata, e veggi sua dottrina

come può seguitar la mia parola;

 

e veggi vostra via da la divina

distar cotanto, quanto si discorda

da terra il ciel che più alto festina" (il primo mobile)

 

Dunque Beatrice lo accusa esplicitamente di avere confidato esclusivamente nella scienza umana e quindi, secondo questa interpretazione, sarebbe per questo peccato puramente intellettuale che Dante si è smarrito nella “selva oscura”.

Lo smarrimento come traviamento morale (Forese Donati)

9)    Ma esiste anche un’altra interpretazione, per me più convincente, che associa lo smarrimento nella “selva oscura” non tanto (o non solo) a un traviamento intellettuale quanto (e soprattutto) a un traviamento morale. Un traviamento probabilmente riconducibile a quel periodo di vita dissoluta, peccaminosa, coincidente con il periodo di amicizia con Forese Donati.

10)                      Chi era Forese Donati? Può sembrare strana questa amicizia, visto che Forese era un Donati, ovvero apparteneva alla famiglia più importante della fazione dei guelfi Neri, mentre Dante era vicino alla fazione dei guelfi Bianchi; e il fratello di Forese, Corso Donati era nientemeno che il capo indiscusso di detta fazione e pertanto detestato da Dante in quanto fra gli autori del colpo di Stato con cui nel 1301 i Neri si erano impadroniti del potere a Firenze e avevano scatenato le persecuzioni contro i Bianchi, persecuzioni di cui anche Dante fu vittima con la condanna, prima all’esilio e successivamente al rogo.

Corso e Piccarda

11)                      Ma sarà lo stesso Forese, incontrato da Dante in Purgatorio, a profetizzare per Corso – che nel 1300, anno del viaggio ultraterreno di Dante, era ancora vivo – la dannazione all’inferno, dove sarebbe stato trascinato alla coda di un cavallo. Forese aveva anche una sorella, Piccarda Donati, che Dante incontrerà in Paradiso, nel cielo della Luna, dove si trovano le anime di coloro che, pur contro la loro volontà, vennero meno ai voti. Piccarda infatti era monaca di Santa Chiara, ma il fratello Corso con un gruppo di facinorosi l’aveva rapita dal convento e costretta a un matrimonio di interesse politico con un certo Rossellino della Tosa.   

L’amicizia con Forese: la “tenzone”

12)                      Ma l’amicizia fra Dante e Forese può sembrare strana anche per un’altra ragione, una ragione di cui abbiamo testimonianza letteraria nella cosiddetta “tenzone con Forese”, ovvero in quello scambio di sonetti in cui i due si rinfacciano accuse e si lanciano invettive con un linguaggio decisamente plebeo (per la precisione Forese accusa Dante di praticare l’usura e Dante di ricambio lo accusa di non soddisfare sessualmente la propria moglie). Ma che amicizia era – ci si potrebbe chiedere – se si scambiavano accuse ed invettive reciproche? In realtà si trattava di una sorta di sperimentazione linguistica, per cui poeti, come Dante ma come anche Cavalcanti, capaci di trattare argomenti di alto livello con lo stile sublime, si cimentavano anche su questioni realistiche della quotidianità, usando un registro linguistico di basso livello, il cosiddetto stile comico-burlesco o comico-realistico.

13)                      Di fatto della sincera amicizia fra Dante e Forese abbiamo testimonianza diretta da parte dello stesso Dante nella Commedia, e precisamente nell’episodio dell’incontro cordiale e molto affettuoso fra i due che si svolge in Purgatorio, nella cornice dei golosi (XXIII) dove è collocato Forese (e dove Dante sembra fare ammenda di ciò che aveva scritto nella “tenzone”, mettendo in bocca a Forese parole di grande elogio nei confronti della propria moglie Nella, lei sola onesta e fedele in mezzo alle donne scostumate di Firenze) .

Non peccati “intellettuali”, ma peccati “materiali”

14)                      Allora torniamo allo smarrimento di Dante nella selva oscura da cui siamo partiti. Che tale smarrimento coincida con la vita peccaminosa condotta in anni giovanili in compagnia dell’amico – e qui si tratterebbe non certo di peccati intellettuali, ma di peccati di incontinenza, peccati della carne, quali ad esempio la gola e la lussuria – sembra dimostrato dalle parole che Dante rivolge allo stesso Forese in occasione appunto dell’incontro in Purgatorio. Forese vuole sapere come mai Dante possa trovarsi lì pur essendo vivo. E Dante gli risponde così (Pg. XXIII, 115-121) :

Per ch’io a lui: "Se tu riduci a mente

      qual fosti meco, e qual io teco fui,

      ancor fia grave il memorar presente.

 

Di quella vita mi volse costui

che mi va innanzi, l’altr’ier, quando tonda

vi si mostrò la suora di colui",

 

e ’l sol mostrai;

 

Di quella vita mi volse costui / che mi va innanzi” sembra decisamente avallare questa interpretazione, perché è stato proprio Virgilio a condurre Dante fuori dalla selva oscura, che dunque qui è identificata con “quella vita” condotta insieme a Forese.

15)                      Ma forse ha ragione chi associa i due aspetti, per cui con lo smarrimento nella selva oscura Dante avrebbe voluto indicare il proprio traviamento dopo la morte di Beatrice, sia dal punto di vista intellettuale che da quello morale, probabilmente intendendo l’uno come conseguenza dell’altro.

ASPETTI CONTROVERSI DELLA DIVINA COMMEDIA (II parte)

 

Il pensiero politico di Dante

9)    Vorrei fare ora qualche considerazione su un’altra questione controversa, ovvero quella che riguarda il pensiero politico di Dante, questione di una certa attualità, a seguito di una recente dichiarazione dell’ex ministro della cultura Sangiuliano, secondo cui Dante sarebbe stato il fondatore del pensiero politico della destra.

10)                      La prima cosa da dire è che le moderne categorie di destra e sinistra sono del tutto estranee nel contesto della cultura medievale, sono categorie ottocentesche e novecentesche, e volerle riconoscere nel pensiero politico del tempo di Dante è senz’altro una forzatura. Il pensiero politico di quel tempo ha come riferimento imprescindibile il rapporto di potere fra le due istituzioni universali, ovvero l’Impero e la Chiesa. E su questo rapporto Dante ha una precisa posizione.

I due poteri. Modernità di Marsilio

11)                      Il pensiero prevalente – soprattutto in ambiente guelfo, cui lo stesso Dante apparteneva –  era quello che sosteneva la superiorità del potere del Papa, dal quale derivava il potere dell’Imperatore. Il rapporto fra i due poteri veniva esemplificato con l’immagine dei due lumi del cielo, il sole, che brilla di luce propria, e la luna, che brilla di luce riflessa. Ma esisteva anche il pensiero opposto, rappresentato soprattutto da Marsilio da Padova, secondo cui il potere supremo apparteneva all’Imperatore e ad esso dovevano sottomettersi tutti i cittadini, compresi gli ecclesiastici (così nel Defensor pacis, 1324).

12)                      Piccolo inciso a questo proposito. E’ veramente moderno per il suo carattere laico il pensiero di Marsilio, il quale attacca decisamente sia la pretesa di “universalità” dell’Impero sia, soprattutto, quella di giurisdizione separata avanzata dalla Chiesa, arrivando a sostenere l’origine naturale, umana e non divina, della società e dello Stato: l’unica fonte della legge è il popolo (la cui volontà è rivelatrice di quella divina), e solo da questo deriva il potere dello Stato, che deve pertanto potersi esercitare su tutti i cittadini, compresi gli ecclesiastici.

I due poteri per Dante, ovvero i “due soli”

13)                      Dante espone il suo pensiero politico in maniera organica nel De monàrchia, ma è un pensiero che si manifesta più volte, e non marginalmente, nella Commedia. Per Dante i due poteri sono autonomi – quello temporale dell’Imperatore e quello spirituale del Papa – in quanto entrambi derivano direttamente da Dio ed hanno come fineessendo l'uomo una creatura composta da una parte corruttibile, il corpo, e da una incorruttibile, l'anima rispettivamente la felicità terrena (da conseguirsi sotto la guida dell'Imperatore e usando gli insegnamenti della ragione) e la beatitudine eterna (da conseguirsi sotto la guida del Papa e usando gli insegnamenti della fede). Sono due poteri autonomi ma complementari in quanto il fine della beatitudine eterna, per la quale opera il potere spirituale del Papa,  presuppone la pace e la concordia dell’umanità, garantita dal potere temporale dell’Imperatore. A sua volta l’Imperatore deve al Papa una filiale reverenza, poiché il fine della Chiesa è più alto di quello dell’Impero.

14)                      L’immagine che rappresenta i due poteri così intesi non è più quella del sole e della luna,[1] ma quella dei due soli, secondo l’espressione usata da Marco Lombardo (uomo di corte del XIII secolo, su cui si hanno poche notizie) nel canto XVI del Purgatorio (106-129). Dante chiede a Marco quale sia la causa della corruzione del mondo (e in particolare del disastro politico e morale dell’Italia) e costui, dopo aver negato che sia colpa della influenza negativa degli astri o della debolezza della natura umana, spiega che la responsabilità è dei due poteri che vengono meno al loro compito, ma in particolare la colpa è del Papa che pretende di assumere il potere temporale dell’Imperatore; quindi aggiunge:

Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,

due soli aver, che l’una e l’altra strada

facean vedere, e del mondo e di Deo.

 

L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada

col pasturale, e l’un con l’altro insieme

per viva forza mal convien che vada; (dopo la morte di Federico II, Bonifacio VIII si era proclamato vicario imperiale e con la bolla Unam sanctam del 1302 aveva affermato la legittimità di congiungere i due poteri)

 

però che, giunti, l’un l’altro non teme: (l’uno non è frenato dal potere dell’altro)

(se non mi credi, pon mente a la spiga,

ch’ogn’erba si conosce per lo seme.)

…..

Di’ oggimai che la Chiesa di Roma,

per confondere in sé due reggimenti,

cade nel fango, e sé brutta e la soma. (sporca sé stessa e il carico, l’ufficio, che si è addossato)



[1] Dante comunque contesta l’idea che la luna brilla di sola luce riflessa. La luce del sole ne aumenta la luminosità, ma la luna ha una luce di per se stessa (De monarchia, III, IV, 17-18)

ASPETTI CONTROVERSI DELLA DIVINA COMMEDIA (III parte)

 Il disastro politico e morale dell’Italia

9)    Quanto al disastro politico e morale dell’Italia, la risposta la dà Dante stesso nel canto VI del Purgatorio quando, avendo assistito all’abbraccio affettuoso, nell’aldilà, fra le anime di due concittadini, Sordello e Virgilio, pensa alla situazione nell’Italia a lui contemporanea, dove “non stanno senza guerra / li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro ed una fossa serra”, e cioè si combattono fra di loro non solo gli italiani dei diversi territori, ma gli abitanti di una stessa città; quindi esclama:

Ahi serva Italia, di dolore ostello,

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di provincie, ma bordello!

 

Quell’anima gentil fu così presta,

sol per lo dolce suon de la sua terra,

di fare al cittadin suo quivi festa;

 

e ora in te non stanno sanza guerra

li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode

di quei ch’un muro e una fossa serra.

 

Cerca, misera, intorno da le prode

le tue marine, e poi ti guarda in seno,

s’alcuna parte in te di pace gode.

 

Che val perché ti racconciasse il freno

Iustinïano, se la sella è vòta? (riordinò tutte le leggi romane nel Corpus iuris civilis)

Sanz’esso fora la vergogna meno.

 

Ahi gente che dovresti esser devota,

e lasciar seder Cesare in la sella,

se bene intendi ciò che Dio ti nota,

 

guarda come esta fiera è fatta fella

per non esser corretta da li sproni,

poi che ponesti mano a la predella. (la parte della briglia attaccata al morso)

 

O Alberto tedesco ch’abbandoni (d’Austria, eletto imperatore nel 1298, non venne mai in Italia)

costei ch’è fatta indomita e selvaggia,

e dovresti inforcar li suoi arcioni,

 

giusto giudicio da le stelle caggia

sovra ’l tuo sangue, e sia novo e aperto, (lo stesso Alberto fu ucciso e suo figlio Rodolfo morì prematuramente)

tal che ’l tuo successor temenza n’aggia! (riferimento ad Enrico VII di Lussemburgo, che 1310 scese in Italia, ma morì qualche anno dopo)

 

Ch’avete tu e ’l tuo padre sofferto, (Rodolfo d’Asburgo)

per cupidigia di costà distretti, (dei possedimenti in Germania)

che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.

10)                      Qui l’accusa è agli uomini di Chiesa – non è nominato specificamente il Papa – ma l’accusa più dura e nominativa è all’Imperatore che viene meno al suo dovere di far valere ovunque quel potere temporale che gli è stato affidato direttamente da Dio.

La donazione di Costantino. Contro Bonifacio VIII

11)                      Il potere temporale esercitato abusivamente dal Papa mette in campo la famosa questione della donazione di Costantino. Era questo l’atto, ritenuto autentico, con cui l’imperatore Costantino, al momento di trasferire la sua sede a Bisanzio, avrebbe donato al papa Silvestro I, in segno di gratitudine per averlo guarito dalla lebbra, la giurisdizione su Roma. Quell’atto era un falso, come dimostrò Lorenzo Valla nel 1400 con una accurata analisi filologica. Ma nell’età di Dante non se ne metteva in dubbio l’autenticità. E Dante più volte indica in quell’atto l’inizio della degenerazione della Chiesa.  

12)                      Nella bolgia dei simoniaci (sono coloro che hanno approfittato della propria carica religiosa per trarre guadagno economico), Dante si avvicina alla buca dove è infilato a testa in giù il papa Nicolò III.[1] Nella buca, sotto Nicolò, ci stanno altri papi e costui, al sentire la voce di Dante, crede che sia arrivato papa Bonifacio VIII a farlo cadere di sotto e sostituirlo nella buca. In realtà Bonifacio VIII era ancora vivo e Dante autore, con questa trovata, ne approfitta per profetizzare la dannazione per quel papa. E Dante personaggio, chiarito l’equivoco, rivolto a Nicolò III si lancia in una dura requisitoria contro il peccato di simonia, quindi conclude (Inf. XIX, 112-117):

Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;

e che altro è da voi a l’idolatre,

se non ch’elli uno, e voi ne orate cento? (voi adorate ogni oggetto prezioso, mentre l’idolatra uno solo – con  allusione forse al vitello d’oro, adorato dagli ebrei durante l’esodo)

 

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,

non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre!".


La donazione di Costantino. La visione nel Paradiso terrestre

13)                      Ma ancora la donazione di Costantino come origine della corruzione della Chiesa è rappresentata nella visione cui Dante, in presenza di Beatrice, assiste nel Paradiso terrestre. C’è un carro che rappresenta la Chiesa e c’è un’aquila, che rappresenta l’Impero, che dapprima colpisce violentemente il carro (e questo indica le persecuzioni che la Chiesa dovette subire nei primi tempi da parte dell’Impero), ma successivamente l’aquila ritorna (Pg. XXXII, 124-129):

Poscia per indi ond’era pria venuta,

l’aguglia vidi scender giù ne l’arca

del carro e lasciar lei di sé pennuta;

 

e qual esce di cuor che si rammarca,

tal voce uscì del cielo e cotal disse:

"O navicella mia, com’ mal se’ carca!".

 

14)                      Quelle penne lasciate dall’aquila rappresentano appunto la donazione di Costantino, per cui la voce di Dio che proviene dal cielo se ne lamenta. E infatti, nella visione che continua, quelle penne determinano una trasformazione mostruosa del carro-Chiesa, finchè compare all’interno del carro quella che Dante chiama “una puttana sciolta”, cioè sfrontata, senza ritegno (rappresenta la curia romana corrotta), quindi accanto a lei compare un gigante (da identificare con il re di Francia, Filippo il Bello) con il quale “basciavansi insieme alcuna volta”; infine il gigante porta via con sé il carro e la “puttana” (e questo certamente allude al trasferimento della sede papale ad Avignone, ottenuto da Filippo il Bello nel 1305, essendo papa Clemente V).



[1] I simoniaci guardarono solo ai beni della terra invece che a quelli del cielo; ora nella terra sono conficcati e al cielo rivolgono i piedi, sui quali brilla una fiamma come “un’aureola a rovescio”.

ASPETTI CONTROVERSI DELLA DIVINA COMMEDIA (IV parte)

 

Le due profezie: quella del veltro

9)    In tutto ciò non mi pare che ci siano elementi per vedere in Dante il fondatore del pensiero di destra. Ma c’è un particolare, di cui mi parlava il mio professore di liceo, un particolare che riguarda l’interpretazione di due enigmatiche profezie che si trovano una nel primo canto dell’Inferno e una nell’ultimo canto del Purgatorio.

10)                      Partiamo dalla prima. Dante vorrebbe uscire dalla “selva oscura” e salire verso il colle illuminato dal sole, ma ci sono tre fiere – una lonza[1], un leone e una lupa, simbolo di tre peccati, rispettivamente la lussuria, la superbia e la cupidigia – che gli ostacolano il cammino; soprattutto la lupa lo respinge verso il basso, ma compare Virgilio che non solo gli dice che lui per salvarsi dovrà “tenere altro viaggio”, e cioè un viaggio ultraterreno, ma a proposito della lupa dice queste parole (Inf. I, 100-111):

Molti son li animali a cui s’ammoglia, (la cupidigia comporta altri peccati)

e più saranno ancora, infin che ’l veltro

verrà, che la farà morir con doglia.

 

Questi non ciberà terra né peltro, (una lega di metalli che sta per “moneta”)

ma sapïenza, amore e virtute, (attributi della Trinità, del Figlio, dello Spirito Santo, del Padre)

e sua nazion sarà tra feltro e feltro. (panno umile o indicazione geografica? Dunque un uomo di Chiesa o un eletto perché col feltro si foderavano le urne, oppure il veronese Cangrande?)

 

Di quella umile Italia fia salute

per cui morì la vergine Cammilla,

Eurialo e Turno e Niso di ferute.

 

Questi la caccerà per ogne villa,

fin che l’avrà rimessa ne lo ’nferno,

là onde ’nvidia prima dipartilla. (il diavolo, come Dio è il “primo amore”)

 

Il veltro è un cane da caccia e dunque come tale letteralmente caccia la lupa. Ma sul suo significato allegorico, e quindi sul personaggio cui la profezia si riferirebbe, si sono date e argomentate le più svariate interpretazioni: un Pontefice, un Imperatore, Dante stesso[2], un signore italiano come Cangrande della Scala (cui Dante nel Paradiso profetizza grandi imprese), ecc.

Le due profezie: quella del “cinquecento diece e cinque”

11)                       Ma ecco la seconda profezia, che si tende a mettere in relazione con la prima. Siamo nell’ultimo canto del Purgatorio e Beatrice spiega a Dante il senso della visione cui ha appena assistito, la visione del carro trasformato in mostro e poi portato via dal gigante con il carico che sappiamo. Quindi dice (Pg. XXXIII, 37-45):

Non sarà tutto tempo sanza reda

l’aguglia che lasciò le penne al carro,

per che divenne mostro e poscia preda;

 

ch’io veggio certamente, e però il narro,

a darne tempo già stelle propinque,

secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,

 

nel quale un cinquecento diece e cinque,

messo di Dio, anciderà la fuia (propriamente ladra, da intendersi la “puttana sciolta”)

con quel gigante che con lei delinque.

 

12)                      Qui il messo di Dio è indicato con un numero, il 515, e anche in questo caso le ipotesi di identificazione sono state tante. Però qui, a differenza della profezia del veltro, considerando gli anni presumibili di stesura del canto, e visto che si parla di un erede dell’aquila, si può pensare all’imperatore Enrico VII di Lussemburgo, che nel 1310 era sceso in Italia suscitando in Dante grandi speranze di restaurazione dell’unico legittimo potere temporale, speranze che però andarono deluse perché Enrico morì due anni dopo. Con tutto ciò, l’indicazione numerica resta misteriosa. Leggendo il numero con le lettere latine sia ha D X V, e in questo si è voluto vedere un acronimo interpretabile in diversi modi (Domini Xristi Vertagus, Domini Xristi Vicarius, Dante Xristi Vertagus).

L’interpretazione in età fascista

13)                      Ma ecco il particolare di cui parlava a noi studenti il mio vecchio professore di liceo. Diceva che in epoca fascista circolava un’interpretazione secondo cui il veltro profetizzato da Dante era Mussolini stesso, il Duce. Nel numero cinquecento diece e cinque bastava spostare il cinque prima del dieci ed ecco che l’acronimo diventava D V X, cioè duce. Quanto al veltro, si dice che “sua nazion sarà tra feltro e feltro”, cioè tra Feltre, in Veneto, e il  Montefeltro, nella Marca alta, dunque in Romagna, che è appunto il luogo di nascita di Mussolini. Del resto si dice anche che tale personaggio “dell’umile Italia fia salute”, cioè sarà di salvezza, sarà il salvatore dell’Italia, e questo, secondo tale interpretazione, si attagliava perfettamente al duce del fascismo.

14)                      Naturalmente si tratta di una interpretazione risibile e certo non è credibile che l’ex ministro Sangiuliano ritenga Dante il fondatore del pensiero di destra in quanto autore di una profezia che avrebbe varcato i secoli per realizzarsi nel modo suddetto. Sono invece credibili altre motivazioni che possono indurre ad associare alla destra il pensiero di Dante.



[1] Una specie di lince, simile alla pantera o al leopardo.

[2] Nell’epistola a Cangrande dice che la Commedia è stata concepita “non gratia speculativi negotii, sed gratia operis” (non per la speculazione, ma per l’azione) .