martedì 28 novembre 2023

I promessi sposi, un romanzo controverso (V parte)

 


Manzoni a 86 anni


La conclusione del romanzo: la morale di Renzo e quella di Lucia

 

1)    Non è questa una denuncia della collusione fra uomini di potere a danno della giustizia e di chi il potere non ce l’ha?  Se è così, va ripensato il senso della conclusione del romanzo in cui Renzo, con la famosa serie degli “ho imparato” (ho imparato a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza, ecc.), teorizza l’astensione dalla politica (la non partecipazione) e Lucia lo corregge suggerendo la necessità di affidarsi a Dio:

“e io,” disse un giorno al suo moralista, “cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me…”. Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore.

 

2)     Ma dunque, per quanto riguarda il punto di vista iniziale di Renzo, come possiamo pensare che l’autore della Storia della colonna infame, l’autore del memorabile dialogo che abbiamo appena letto, insegni l’inerzia della rassegnazione, insegni a non agire per contrastare il male operato dagli uomini? E’ certo che non può trionfare, con gli “ho imparato” di Renzo,  la morale opportunistica e complice di don Abbondio (la morale che insegna a farsi i fatti propri, secondo cui, come dice lui stesso, “a un galantuomo che badi a sé, e stia ne’ suoi panni, non accadon mai brutti incontri”); e don Abbondio, a ben guardare, è il vero personaggio negativo del romanzo, non il comico che poi esorcizziamo.

3)    Ma nemmeno si può credere che chi ha dato una simile rappresentazione della realtà della storia possa “farla così semplice”, come la fa, ancora una volta, don Abbondio, quando parla della Provvidenza come di una scopa, visto che grazie alla peste è stato “spazzato” via don Rodrigo; ma anche, a ben guardare, come la fa Lucia, quando invita alla “fiducia in Dio”.  Quel finale è in verità aperto e problematico: quel “lungo dibattere e cercare insieme” di Renzo e Lucia continua, dice Raimondi, nella coscienza del lettore).

Un finale poco lieto

4)    Non si può non notare come non ci sia niente di consolatorio in quel finale, e ciò è confermato dal tono così poco lieto che pervade le pagine conclusive. L’abbandono della terra natale da parte dei protagonisti è paragonato dall’Anonimo al trauma della perdita del capezzolo materno:

Anche il bambino, dice il manoscritto, riposa volentieri sul seno della balia, cerca con avidità e con fiducia la poppa che l’ha dolcemente alimentato fino allora; ma se la balia, per divezzarlo, la bagna d’assenzio, il bambino ritira la bocca, poi torna a provare, ma finalmente se ne stacca; piangendo sì, ma se ne stacca.

 

Dal paese del bergamasco dove sono giunti si devono spostare perché a Renzo non piacciono i pettegolezzi che si fanno su Lucia; e all’inizio nemmeno nel nuovo paese le cose vanno bene, visti i problemi che Renzo deve affrontare nel filatoio che ha acquistato insieme al cugino Bortolo). Dietro l’apparente lieto fine, si ripropone il mistero del male.

Il male e la Provvidenza

5)    La convinzione profonda del cristiano Manzoni è che la condizione dell’uomo nel mondo sia segnata per sempre dalla caduta, e quindi dalla presenza ineliminabile del male e del dolore: certo, come dice Lucia, la “fiducia in Dio” lo “raddolcisce” e lo “rende utile per una vita migliore”, ma non nel senso che si debba confidare in una Provvidenza che giunge puntualmente a castigare i colpevoli e a premiare gli innocenti (almeno, non in questa vita), bensì nel senso che, attraverso la “sventura” (che allora è “provvida”), si acquisisce una consapevolezza superiore della propria condizione in questa vita, e del proprio dovere verso gli altri.

 

La Provvidenza per il narratore

6)    La Provvidenza, indicata più volte dalla critica come la vera protagonista del romanzo manzoniano, è effettivamente nominata più volte, ma quasi sempre nelle parole o nei pensieri di Renzo o Lucia. Il narratore invece, cioè lo stesso Manzoni, non ha ritegno di ricordarci che l’affidarsi alla Provvidenza può essere anche giustificazione vile di scelte moralmente o politicamente riprovevoli: così quando ne parla don Abbondio come di una scopa, ma anche quando si ricorda che don Gonzalo, il governatore di Milano, al tempo della calata dei Lanzichenecchi, pur avvisato dai medici della Sanità del pericolo della peste, rispose “che non sapeva cosa farci… e si sperasse nella Provvidenza”. Si può credere che qui Manzoni avalli l’inerzia del governatore che si affida alla Provvidenza? Certamente no.

La responsabilità degli uomini e il dovere di agire

7)    Che ci sia un dovere da compiere verso gli altri (che non ci si possa chiudere né in un opportunismo complice, né in una rassegnazione fideistica) è evidente dal fatto che – va ripetuto –  tutto il romanzo è una denuncia dura e inflessibile della responsabilità degli uomini (soprattutto di quelli che governano) nel commettere il male. Il male è certo ineliminabile, ma questo non ci esime dal dovere di agire per contrastarlo, esiste un margine che ci consente di intervenire per attenuarlo (non si spiegherebbe altrimenti la positività di figure eroiche quali quelle di fra Cristoforo, del Cardinale, dell’Innominato convertito).

La semplice verità dell’Anonimo e il superamento del “giansenismo”

8)     Dunque, io suggerisco di tornare indietro di qualche pagina e riconoscere che il vero “sugo” della storia sta nelle parole dell’Anonimo:

l’uomo, fin che sta in questo mondo, è un infermo che si trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a sè altri letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma, a un di presso, alla storia di prima. E per questo, soggiunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. È tirata un po’ con gli argani, e proprio da secentista; ma in fondo ha ragione

 

9)    Bisognerebbe più pensare a far bene che a star bene, e così si finirebbe anche per star meglio”. E se è così, è anche superato l’intransigente pessimismo (il presunto “giansenismo”) enunciato nelle parole di Adelchi morente (“Loco a gentile, / ad innocente opra non v’è; non resta / che far torto o patirlo”): non tanto perché il lieto fine dimostri la possibilità che il bene trionfi nella storia (visto che un vero lieto fine non c’è), quanto perché le suddette parole dell’Anonimo, avallate dal narratore, rivendicano uno spazio (un “loco”, per quanto piccolo) per un’azione “gentile” ed “innocente, sostengono il dovere di operare per il bene.

Conclusione

10)                      In conclusione, se si può condividere l’opinione di chi ritiene (come Gramsci e Moravia) che il conte Manzoni, aristocratico dell’Ottocento, sconti dei limiti storici oggettivi quanto alla capacità di comprendere fino in fondo la condizione popolare, mi pare sbrigativo ed ingiusto il giudizio di chi dice che il romanzo “loda preti e frati” e insegna “rassegnazione e sottomissione. Quanto a preti e frati, se sono lodati fra Cristoforo e il cardinale Borromeo, non lo sono certamente don Abbondio o il padre Provinciale, e che il romanzo insegni rassegnazione e sottomissione – e a confidare nella Provvidenza – lo può pensare chi si accontenta di una lettura superficiale delle ultime righe dell’ultimo capitolo e non valuta il senso complessivo del romanzo.

 

 

I promessi sposi, un romanzo controverso (IV parte)

 


 
Due immagini di Manzoni

Il giudizio di Caretti

1)    Vorrei ora contrapporre a questi giudizi, il giudizio di Lanfranco Caretti, il quale riconosce il grande valore dell’opera manzoniana, a prescindere dall’ideologia che essa comunica:

Appare evidente l’energia attiva che sorregge il programma manzoniano e che traspare appunto nel rifiuto dell’isolamento, nell’accentuazione del valore morale dell’arte ricondotta dalle finzioni mitologiche alla misura della verità, nella piena coscienza della necessità di rinnovare dal profondo le convenzioni poetiche, stilistiche e linguistiche italiane (...) Se dietro l’ideologia manzoniana, con le sue attive virtù... e i suoi limiti storici ineludibili, c’è il retroterra illuministico, lombardo e francese..., dietro le pagine creative, particolarmente nel romanzo, c’è invece soltanto l’ammirevole e febbrile ricerca personale, direi addirittura perigliosamente solitaria, di un artista profondamente innovatore. Un artista che con lucida consapevolezza... liquida con le sole sue forze... le istituzioni retoriche e linguistiche ufficiali e promuove, con una progressione risoluta che si dimostrerà poi irreversibile, la ricerca di forme letterarie sostanzialmente diverse da quelle del passato... Questa potente spinta a superare lo scarto sempre più sensibile e anacronistico fra il livello della nostra tradizione linguistica e letteraria e il livello delle idee ormai correnti, costituisce, a parte ogni riserva che poi si voglia avanzare sull’ideologia manzoniana..., il vero e memorabile merito del Manzoni… Il Manzoni creava così in Italia, si può dire dal nulla, il romanzo moderno… Non si dovrà dimenticare che Manzoni non aveva pressoché nulla di esemplare a cui riferirsi, e non solo in Italia ma anche all’estero.” (L. Caretti, da Alessandro Manzoni, milanese )

 

2)    Caretti fa infatti notare che quando nel 1825 i Promessi sposi sono già un libro interamente compiuto, i grandi romanzi di Stendhal devono ancora essere scritti e pubblicati e Balzacera ancora ben lontano dal mettere mano ai primi tomi della sua grande Comédie humaine. In quanto a Tolstoi, a cui troppo di frequente si confronta il Manzoni con evidente stortura storica e perciò con ingiusto proposito riduttivo, dovrà seguire a mezzo secolo di distanza, avendo ormai dietro di sé una splendida tradizione di romanzo

Il mio parere: denuncia della responsabilità degli uomini

3)    Il mio modesto parere – peraltro stimolato dalle acute osservazioni di Ezio Raimondi nel saggio Romanzo senza idillio – è che, al di là dei meriti di straordinaria e solitaria innovazione letteraria che Caretti attribuisce all’opera manzoniana, si debba mettere in discussione anche l’antimanzonismo per quanto riguarda l’ideologia che il romanzo comunica. Penso cioè che non si debba accettare pedissequamente ma meriti qualche approfondimento l’idea che il romanzo comunichi, come è stato detto, rassegnazione e sottomissione, e che in esso sia rappresentata, come è stato detto, l’epopea della Provvidenza, rispetto a cui ben poco valgono le azioni degli uomini.

4)    Faccio notare come sia estremamente significativa quell’aggiunta in appendice che è la Storia della colonna infame, un’aggiunta – si badi bene – che Manzoni volle come parte integrante del romanzo. Si tratta, come è noto, della ricostruzione della vicenda della condanna dei cosiddetti “untori” al tempo della peste. La colonna detta “infame” era stata eretta sul luogo dove sorgeva il negozio da barbiere di Giacomo Mora, uno dei presunti untori, a perenne memoria della loro infamia. Ma per Manzoni quella colonna ricorda piuttosto l’infamia di quei giudici che condannarono degli innocenti.  Manzoni infatti attribuisce non all’ignoranza dei tempi la colpa di quelle aberranti condanne (come aveva fatto Pietro Verri in un opuscolo Sulla tortura) ma alla viltà di quei giudici che, contro fatti che erano evidenti anche per loro, vollero trovare un capro espiatorio condannando degli innocenti. E dunque quell’appendice getta una luce su tutto il romanzo che appare allora (con tutti i limiti di capacità di comprensione del popolo che un aristocratico dell’Ottocento, quale Manzoni, poteva avere) come una denuncia implacabile della responsabilità degli uomini di potere nel male del mondo.

Il rapporto fra potenti come “collusione mafiosa”

5)    Ricordo che ai tempi dell’uccisione di Dalla Chiesa i ragazzi, impegnati in scioperi e manifestazioni, mi chiesero che cosa faceva la scuola contro la mafia. Poiché stavamo leggendo Manzoni, io risposi che quel romanzo qualcosa ci insegna nel momento in cui ci mostra gli uomini di potere che  si appoggiano a vicenda a danno dei semplici cittadini: di che altro di tratta se non di una denuncia di quella che oggi chiameremmo collusione mafiosa?

6)    Si rilegga l’episodio di fra Cristoforo che si presenta al palazzo di don Rodrigo per intercedere a favore dei due promessi sposi e si noti come alla stessa tavola siedano esponenti del potere economico (Rodrigo e Attilio), del potere politico (il Podestà), del potere giudiziario (Azzeccagarbugli).

7)    E si rilegga l’episodio dell’incontro e del dialogo fra il conte Zio e il padre provinciale: episodio straordinario non solo per l’acutezza psicologica con cui i due personaggi sono delineati, ma anche per la capacità che Manzoni dimostra di comprendere i meccanismi che regolano il rapporto tra potenti. Il conte zio è zio di don Rodrigo e del conte Attilio, ed è un autorevole uomo politico che risiede a Milano; su richiesta di Attilio incontra il padre provinciale (è il padre superiore di tutti i cappuccini) per convincerlo a spostare fra Cristoforo da Pescarenico. E’ un passo lungo, ma è troppo bello per non essere letto integralmente (cap. XIX):

(…) Tutto ben ponderato, il conte zio invitò un giorno a pranzo il padre provinciale, e gli fece trovare una corona di commensali assortiti con un intendimento sopraffino. Qualche parente de’ più titolati, di quelli il cui solo casato era un gran titolo; e che, col solo contegno, con una certa sicurezza nativa, con una sprezzatura signorile, parlando di cose grandi con termini famigliari, riuscivano, anche senza farlo apposta, a imprimere e rinfrescare, ogni momento, l’idea della superiorità e della potenza; e alcuni clienti legati alla casa per una dipendenza ereditaria, e al personaggio per una servitù di tutta la vita; i quali, cominciando dalla minestra a dir di sì, con la bocca, con gli occhi, con gli orecchi, con tutta la testa, con tutto il corpo, con tutta l’anima, alle frutte v’avevan ridotto un uomo a non ricordarsi più come si facesse a dir di no.

A tavola, il conte padrone fece cader ben presto il discorso sul tema di Madrid. A Roma si va per più strade; a Madrid egli andava per tutte. Parlò della corte, del conte duca, de’ ministri, della famiglia del governatore; delle cacce del toro, che lui poteva descriver benissimo, perché le aveva godute da un posto distinto; dell’Escuriale di cui poteva render conto a un puntino, perché un creato del conte duca l’aveva condotto per tutti i buchi. Per qualche tempo, tutta la compagnia stette, come un uditorio, attenta a lui solo, poi si divise in colloqui particolari; e lui allora continuò a raccontare altre di quelle belle cose, come in confidenza, al padre provinciale che gli era accanto, e che lo lasciò dire, dire e dire. Ma a un certo punto, diede una giratina al discorso, lo staccò da Madrid, e di corte in corte, di dignità in dignità, lo tirò sul cardinal Barberini, ch’era cappuccino, e fratello del papa allora sedente, Urbano VIII: niente meno. Il conte zio dovette anche lui lasciar parlare un poco, e stare a sentire, e ricordarsi che finalmente, in questo mondo, non c’era soltanto i personaggi che facevan per lui. Poco dopo alzati da tavola, pregò il padre provinciale di passar con lui in un’altra stanza.

Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte. Il magnifico signore fece sedere il padre molto reverendo, sedette anche lui, e cominciò: - stante l’amicizia che passa tra di noi, ho creduto di far parola a vostra paternità d’un affare di comune interesse, da concluder tra di noi, senz’andar per altre strade, che potrebbero... E perciò, alla buona, col cuore in mano, le dirò di che si tratta; e in due parole son certo che anderemo d’accordo. Mi dica: nel loro convento di Pescarenico c’è un padre Cristoforo da ***?

Il provinciale fece cenno di sì.

- Mi dica un poco vostra paternità, schiettamente, da buon amico... questo soggetto... questo padre... Di persona io non lo conosco; e sì che de’ padri cappuccini ne conosco parecchi: uomini d’oro, zelanti, prudenti, umili: sono stato amico dell’ordine fin da ragazzo... Ma in tutte le famiglie un po’ numerose... c’è sempre qualche individuo, qualche testa... E questo padre Cristoforo, so da certi ragguagli che è un uomo... un po’ amico de’ contrasti... che non ha tutta quella prudenza, tutti que’ riguardi... Scommetterei che ha dovuto dar più d’una volta da pensare a vostra paternità.

" Ho inteso: è un impegno, - pensava intanto il provinciale: - colpa mia; lo sapevo che quel benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in pulpito, e non lasciarlo fermare mesi in un luogo, specialmente in conventi di campagna ".

- Oh! - disse poi: - mi dispiace davvero di sentire che vostra magnificenza abbia in un tal concetto il padre Cristoforo; mentre, per quanto ne so io, è un religioso... esemplare in convento, e tenuto in molta stima anche di fuori.

- Intendo benissimo; vostra paternità deve... Però, però, da amico sincero, voglio avvertirla d’una cosa che le sarà utile di sapere; e se anche ne fosse già informata, posso, senza mancare ai miei doveri, metterle sott’occhio certe conseguenze... possibili: non dico di più. Questo padre Cristoforo, sappiamo che proteggeva un uomo di quelle parti, un uomo... vostra paternità n’avrà sentito parlare; quello che, con tanto scandolo, scappò dalle mani della giustizia, dopo aver fatto, in quella terribile giornata di san Martino, cose... cose... Lorenzo Tramaglino!

" Ahi! " pensò il provinciale; e disse: - questa circostanza mi riesce nuova; ma vostra magnificenza sa bene che una parte del nostro ufizio è appunto d’andare in cerca de’ traviati, per ridurli...

- Va bene; ma la protezione de’ traviati d’una certa specie...! Son cose spinose, affari delicati... - E qui, in vece di gonfiar le gote e di soffiare, strinse le labbra, e tirò dentro tant’aria quanta ne soleva mandar fuori, soffiando. E riprese: - ho creduto bene di darle un cenno su questa circostanza, perché se mai sua eccellenza... Potrebbe esser fatto qualche passo a Roma... non so niente... e da Roma venirle...

- Son ben tenuto a vostra magnificenza di codesto avviso; però son certo che, se si prenderanno informazioni su questo proposito, si troverà che il padre Cristoforo non avrà avuto che fare con l’uomo che lei dice, se non a fine di mettergli il cervello a partito. Il padre Cristoforo, lo conosco.

- Già lei sa meglio di me che soggetto fosse al secolo, le cosette che ha fatte in gioventù.

- È la gloria dell’abito questa, signor conte, che un uomo, il quale al secolo ha potuto far dir di sé, con questo indosso, diventi un altro. E da che il padre Cristoforo porta quest’abito...

- Vorrei crederlo: lo dico di cuore: vorrei crederlo; ma alle volte, come dice il proverbio... l’abito non fa il monaco.

Il proverbio non veniva in taglio esattamente; ma il conte l’aveva sostituito in fretta a un altro che gli era venuto sulla punta della lingua: il lupo cambia il pelo, ma non il vizio.

- Ho de’ riscontri, - continuava, - ho de’ contrassegni...

- Se lei sa positivamente, - disse il provinciale, - che questo religioso abbia commesso qualche errore (tutti si può mancare), avrò per un vero favore l’esserne informato. Son superiore: indegnamente; ma lo sono appunto per correggere, per rimediare.

- Le dirò: insieme con questa circostanza dispiacevole della protezione aperta di questo padre per chi le ho detto, c’è un’altra cosa disgustosa, e che potrebbe... Ma, tra di noi, accomoderemo tutto in una volta. C’è, dico, che lo stesso padre Cristoforo ha preso a cozzare con mio nipote, don Rodrigo ***.

- Oh! questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace davvero.

- Mio nipote è giovine, vivo, si sente quello che è, non è avvezzo a esser provocato...

- Sarà mio dovere di prender buone informazioni d’un fatto simile. Come ho già detto a vostra magnificenza, e parlo con un signore che non ha meno giustizia che pratica di mondo, tutti siamo di carne, soggetti a sbagliare... tanto da una parte, quanto dall’altra: e se il padre Cristoforo avrà mancato...

- Veda vostra paternità; son cose, come io le dicevo, da finirsi tra di noi, da seppellirsi qui, cose che a rimestarle troppo... si fa peggio. Lei sa cosa segue: quest'urti, queste picche, principiano talvolta da una bagattella, e vanno avanti, vanno avanti... A voler trovarne il fondo, o non se ne viene a capo, o vengon fuori cent'altri imbrogli. Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire. Mio nipote è giovine; il religioso, da quel che sento, ha ancora tutto lo spirito, le... inclinazioni d’un giovine: e tocca a noi, che abbiamo i nostri anni... pur troppo eh, padre molto reverendo?...

Chi fosse stato lì a vedere, in quel punto, fu come quando, nel mezzo d’un’opera seria, s’alza, per isbaglio, uno scenario, prima del tempo, e si vede un cantante che, non pensando, in quel momento, che ci sia un pubblico al mondo, discorre alla buona con un suo compagno. Il viso, l’atto, la voce del conte zio, nel dir quel pur troppo!, tutto fu naturale: lì non c’era politica: era proprio vero che gli dava noia d’avere i suoi anni. Non già che piangesse i passatempi, il brio, l’avvenenza della gioventù: frivolezze, sciocchezze, miserie! La cagion del suo dispiacere era ben più soda e importante: era che sperava un certo posto più alto, quando fosse vacato; e temeva di non arrivare a tempo. Ottenuto che l’avesse, si poteva esser certi che non si sarebbe più curato degli anni, non avrebbe desiderato altro, e sarebbe morto contento, come tutti quelli che desideran molto una cosa, assicurano di voler fare, quando siano arrivati a ottenerla.

Ma per lasciarlo parlar lui, - tocca a noi, - continuò, - a aver giudizio per i giovani, e a rassettar le loro malefatte. Per buona sorte, siamo ancora a tempo; la cosa non ha fatto chiasso; è ancora il caso d’un buon principiis obsta. Allontanare il fuoco dalla paglia. Alle volte un soggetto che, in un luogo, non fa bene, o che può esser causa di qualche inconveniente, riesce a maraviglia in un altro. Vostra paternità saprà ben trovare la nicchia conveniente a questo religioso. C’è giusto anche l’altra circostanza, che possa esser caduto in sospetto di chi... potrebbe desiderare che fosse rimosso: e, collocandolo in qualche posto un po’ lontanetto, facciamo un viaggio e due servizi; tutto s’accomoda da sé, o per dir meglio, non c’è nulla di guasto.

Questa conclusione, il padre provinciale se l’aspettava fino dal principio del discorso. " Eh già! - pensava tra sé: - vedo dove vuoi andar a parare: delle solite; quando un povero frate è preso a noia da voi altri, o da uno di voi altri, o vi dà ombra, subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare ".

E quando il conte ebbe finito, e messo un lungo soffio, che equivaleva a un punto fermo, - intendo benissimo, - disse il provinciale, - quel che il signor conte vuol dire; ma prima di fare un passo...

- È un passo e non è un passo, padre molto reverendo: è una cosa naturale, una cosa ordinaria; e se non si prende questo ripiego, e subito, prevedo un monte di disordini, un’iliade di guai. Uno sproposito... mio nipote non crederei... ci son io, per questo... Ma, al punto a cui la cosa è arrivata, se non la tronchiamo noi, senza perder tempo, con un colpo netto, non è possibile che si fermi, che resti segreta... e allora non è più solamente mio nipote... Si stuzzica un vespaio, padre molto reverendo. Lei vede; siamo una casa, abbiamo attinenze...

- Cospicue.

- Lei m’intende: tutta gente che ha sangue nelle vene, e che, a questo mondo... è qualche cosa. C’entra il puntiglio; diviene un affare comune; e allora... anche chi è amico della pace... Sarebbe un vero crepacuore per me, di dovere... di trovarmi... io che ho sempre avuta tanta propensione per i padri cappuccini...! Loro padri, per far del bene, come fanno con tanta edificazione del pubblico, hanno bisogno di pace, di non aver contese, di stare in buona armonia con chi... E poi, hanno de’ parenti al secolo... e questi affaracci di puntiglio, per poco che vadano in lungo, s’estendono, si ramificano, tiran dentro... mezzo mondo. Io mi trovo in questa benedetta carica, che m’obbliga a sostenere un certo decoro... Sua eccellenza... i miei signori colleghi... tutto diviene affar di corpo... tanto più con quell’altra circostanza... Lei sa come vanno queste cose.

- Veramente, - disse il padre provinciale, - il padre Cristoforo è predicatore; e avevo già qualche pensiero... Mi si richiede appunto... Ma in questo momento, in tali circostanze, potrebbe parere una punizione; e una punizione prima d’aver ben messo in chiaro...

- No punizione, no: un provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per impedire i sinistri che potrebbero... mi sono spiegato.

- Tra il signor conte e me, la cosa rimane in questi termini; intendo. Ma, stando il fatto come fu riferito a vostra magnificenza, è impossibile, mi pare, che nel paese non sia traspirato qualcosa. Per tutto c’è degli aizzatori, de’ mettimale, o almeno de’ curiosi maligni che, se posson vedere alle prese signori e religiosi, ci hanno un gusto matto; e fiutano, interpretano, ciarlano... Ognuno ha il suo decoro da conservare; e io poi, come superiore (indegno), ho un dovere espresso... L’onor dell’abito... non è cosa mia... è un deposito del quale... Il suo signor nipote, giacché è così alterato, come dice vostra magnificenza, potrebbe prender la cosa come una soddisfazione data a lui, e... non dico vantarsene, trionfarne, ma...

- Le pare, padre molto reverendo? Mio nipote è un cavaliere che nel mondo è considerato... secondo il suo grado e il dovere: ma davanti a me è un ragazzo; e non farà né più né meno di quello che gli prescriverò io. Le dirò di più: mio nipote non ne saprà nulla. Che bisogno abbiamo noi di render conto? Son cose che facciamo tra di noi, da buoni amici; e tra di noi hanno da rimanere. Non si dia pensiero di ciò. Devo essere avvezzo a non parlare -. E soffiò. - In quanto ai cicaloni, - riprese, - che vuol che dicano? Un religioso che vada a predicare in un altro paese, è cosa così ordinaria! E poi, noi che vediamo... noi che prevediamo... noi che ci tocca... non dobbiamo poi curarci delle ciarle.

- Però, affine di prevenirle, sarebbe bene che, in quest’occasione, il suo signor nipote facesse qualche dimostrazione, desse qualche segno palese d’amicizia, di riguardo... non per noi, ma per l’abito...

- Sicuro, sicuro; quest’è giusto... Però non c’è bisogno: so che i cappuccini son sempre accolti come si deve da mio nipote. Lo fa per inclinazione: è un genio in famiglia: e poi sa di far cosa grata a me. Del resto, in questo caso... qualcosa di straordinario... è troppo giusto. Lasci fare a me, padre molto reverendo; che comanderò a mio nipote... Cioè bisognerà insinuargli con prudenza, affinché non s’avveda di quel che è passato tra di noi. Perché non vorrei alle volte che mettessimo un impiastro dove non c’è ferita. E per quel che abbiamo concluso, quanto più presto sarà, meglio. E se si trovasse qualche nicchia un po’ lontana... per levar proprio ogni occasione...

- Mi vien chiesto per l’appunto un predicatore da Rimini; e fors’anche, senz’altro motivo, avrei potuto metter gli occhi...

- Molto a proposito, molto a proposito. E quando...?

- Giacché la cosa si deve fare, si farà presto.

- Presto, presto, padre molto reverendo: meglio oggi che domani. E, - continuava poi, alzandosi da sedere, - se posso qualche cosa, tanto io, come la mia famiglia, per i nostri buoni padri cappuccini...

- Conosciamo per prova la bontà della casa, - disse il padre provinciale, alzatosi anche lui, e avviandosi verso l’uscio, dietro al suo vincitore.

- Abbiamo spento una favilla, - disse questo, soffermandosi, - una favilla, padre molto reverendo, che poteva destare un grand’incendio. Tra buoni amici, con due parole s’accomodano di gran cose.

Arrivato all’uscio, lo spalancò, e volle assolutamente che il padre provinciale andasse avanti: entrarono nell’altra stanza, e si riunirono al resto della compagnia.

Un grande studio, una grand’arte, di gran parole, metteva quel signore nel maneggio d’un affare; ma produceva poi anche effetti corrispondenti. Infatti, col colloquio che abbiam riferito, riuscì a far andar fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella passeggiata.

 

I promessi sposi, un romanzo controverso (III parte)

 


La famiglia Manzoni (dall'alto in basso, da sinistra a destra: Giulia Beccaria, Manzoni ed Enrichetta; Giulia, Pietro e Cristina; Sofia, Enrico, Clara e Vittoria.

Il successo di pubblico e la critica nell’Ottocento

1)    Il romanzo ha un grande successo di pubblico, tant’è che in tempi in cui non c’era il diritto d’autore, viene stampata una gran quantità di copie pirata. E comincia anche la vicenda critica che vede una prevalenza del cosiddetto “antimanzonismo, che si appunta sia sulla scelta linguistica sia, soprattutto, sulla ideologia del romanzo, cioè sui valori che esso comunica.

2)    Nell’Ottocento un giudizio di apprezzamento è quello di De Sanctis che vedeva nel romanzo – rispetto ad esempio alle tragedie – “l’ideale” calato nel “reale”, per cui i protagonisti sono uomini veri, non più gli eroi alfieriani – o foscoliani – che si risolvono nel rifiuto della storia e della realtà. Quanto alla religiosità che pervade il romanzo, De Sanctis riconosceva in essa una componente democratica e di impegno civile, che quindi allineava l’ideologia manzoniana alla tradizione dell’illuminismo lombardo.

L’antimanzonismo: Scalvini, Settembrini, Carducci

3)    Ma già nell’Ottocento prevale l’antimanzonismo. Per restare alle posizioni critiche più note, comincerò da Giovita Scalvini che già nel 1830, quindi ben prima dell’edizione definitiva, così si esprimeva:

(nel romanzo si avverte) un non so che di austero, quasi dico di uniforme, di insistenza senza alcuna tregua mai verso un unico obietto: non ti senti spaziare libero entro la gran varietà del mondo morale; t’accorgi spesso di non essere sotto la gran volta del firmamento che copre tutte le multiformi esistenze, bensì d’essere sotto quelle del tempio che copre i fedeli e l’altare.

 

4)    Forti stroncature sono proprie della corrente laica e democratica del Risorgimento, a cui apparteneva Luigi Settembrini, il quale definiva i Promessi sposiil libro della reazione” e aggiungeva: è un libro che loda preti e frati, consiglia pazienza e sommissione”. Altrettanto pensava l’anticlericale ed antiromantico Carducci, che peraltro disprezzava anche la debolezza di una lingua che rinunciava alla energia e alla vitalità della tradizione classica.

La critica nel Novecento: Croce, Momigliano, Russo

5)    Nel Novecento Benedetto Croce dell’opera di Manzoni apprezzava l’Adelchi, ma non i Promessi sposi, in cui vedeva non poesia ma oratoria, non la libera espressione del sentimento ma l’intenzione pedagogica di ammaestrare, di comunicare principi morali, ideali religiosi: finalità, secondo la sua concezione dell’arte, estranee alla natura della poesia.

6)    Momigliano vedeva invece nella religiosità del romanzo un momento non estraneo, ma costitutivo dell’ispirazione poetica; Russo parlava di una epopea della Provvidenza e riconosceva a Manzoni una grande acutezza nella rappresentazione della psicologia dei personaggi.

7)    Peraltro sia Momigliano che Russo sono autori di famosi commenti scolastici del romanzo. Va infatti ricordato che già nell’Italia dopo l’unità e poi per tutto il Novecento fu imposta la lettura obbligatoria nella scuola superiore del romanzo, ritenuto non solo un modello linguistico, ma anche di educazione morale e civile.

La stroncatura di Gramsci: i popolani sono “macchiette”

8)    Ma vediamo ora due celebri esempi novecenteschi di critica durissima del romanzo, quello di Gramsci e quello di Moravia. Ambedue sono accomunati dalla convinzione che l’atteggiamento di Manzoni sia non di vicinanza, ma di distacco aristocratico rispetto ai popolani di cui si narrano le vicende.

9)    Gramsci critica in partenza l’uso dell’espressione “gli umili”:

Questa espressione, ‘gli umili’, è caratteristica per comprendere l’atteggiamento tradizionale degli intellettuali italiani verso il popolo. (…) Nell’intellettuale italiano l’espressione ‘umili’ indica un rapporto di protezione paterna e padreternale, il sentimento ‘sufficiente’ di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulto e bambino nella vecchia pedagogia o, peggio ancora, un rapporto da ‘società protettrice degli animali’, o da esercito della salute anglosassone verso i cannibali della Papuasia. (...) Il carattere ‘aristocratico’ del cattolicismo manzoniano appare dal ‘compatimento’ scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj): come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia, ecc. (...) I popolani, per Manzoni, non hanno ‘vita interiore’, non hanno personalità morale profonda; essi sono ‘animali’, e il Manzoni è ‘benevolo’ verso di loro, proprio della benevolenza di una cattolica società di protezione degli animali. (...) L’atteggiamento del Manzoni verso i suoi popolani è l’atteggiamento della Chiesa cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di medesimezza umana. (...) Tra il Manzoni e gli ‘umili’ c’è distacco sentimentale: gli umili sono per il Manzoni un ‘problema di storiografia’, un problema teorico che egli crede di poter risolvere col ‘romanzo storico’, col ‘verosimile’ del romanzo storico. Perciò gli umili sono spesso presentati come macchiette popolari, con bonarietà ironica, ma ironica. E il Manzoni è troppo cattolico per pensare che la voce del popolo sia la voce di Dio: tra il popolo e Dio c’è la Chiesa e Dio non s’incarna nel popolo ma nella Chiesa. Che Dio si incarni nel popolo può crederlo Tolstoi, non Manzoni. (…) Nei Promessi sposi non c’è popolano che non sia ‘preso in giro’ e canzonato: da don Abbondio a fra Galdino, al sarto, a Gervasio, ad Agnese, a Perpetua, a Renzo, alla stessa Lucia: essi sono rappresentati come gente meschina, angusta, senza vita interiore. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l’Innominato, lo stesso don Rodrigo. (A. Gramsci, dai Quaderni dal carcere ).

 

E’ una critica spietata, Gramsci non concede niente, nessun valore al romanzo di Manzoni.

La critica di Moravia: è un’opera di propaganda cattolica

10)                      Anche Moravia non va troppo per il sottile. Ritiene i Promessi sposi un’opera di propaganda cattolica. La presenza del religioso nel romanzo, come personaggi, situazioni, linguaggio, è senz’altro ipertrofica (il 95%, contro un 5% in Stendhal, Tolstoi, Balzac, Flaubert) a dimostrazione dell’intenzione propagandistica. Il realismo cattolico in Manzoni sembra avere gli stessi intendimenti propagandistici del realismo socialista: vuole dimostrare il trionfo della propria visione del mondo. La stessa scelta del Seicento è funzionale a tale operazione: è il secolo della Controriforma, e cioè del cattolicesimo trionfante; una vicenda ambientata nel presente non avrebbe funzionato altrettanto bene.

Sempre Moravia: atteggiamento paternalistico di Manzoni

11)                      Resta la simpatia per Renzo e Lucia, per gli umili che sono puri in quanto fuori della storia: siccome la storia è corruzione, sono negativi (corrotti) i personaggi che vivono nella storia, o che comunque appartengono alle classi che fanno la storia (Gertrude, il conte Zio, ecc.); la vita ideale è quella rustica, semplice, povera, vicina alla parrocchia e lontana dalla politica.

12)                      Ma, al fondo, Manzoni è e resta un aristocratico conservatore, e il suo atteggiamento nei confronti dei popolani protagonisti della sua opera è un atteggiamento paternalistico, a differenza di quello di Tolstoi (anche Moravia, come Gramsci, suggerisce questo confronto), autenticamente popolare e profondamente evangelico. Come esempio dell’atteggiamento di Manzoni verso gli umili, si guardi – insiste Moravia – la magra figura che il sarto fa davanti al Cardinale. Costui, di condizione sociale modesta, accoglie nella sua casa Lucia, che è stata liberata dall’Innominato convertito. Il cardinale gli fa visita per ringraziarlo e il sarto, che si picca di avere una certa cultura, ha preparato un bel discorso da rivolgere all’illustre ospite, ma poi, “in presenza del Borromeo, si impappina e non riesce a pronunciare che un insulso ‘si figuri’” (cosa di cui si rammaricherà per tutta la vita).  In altre parole – scrive Moravia – l’aneddoto sottolinea la soggezione del sarto di fronte al cardinale, attribuendogli, oltre all’inferiorità sociale, anche quella morale e intellettuale”. Laddove Boccaccio, con la novella di Cisti fornaio (il quale, in una situazione analoga, fa vergognare un potente con un bel detto)[1], aveva dato dimostrazione di un sentimento più profondo ed autentico dell’uguaglianza umana.

Sempre Moravia: Manzoni come l’erede di don Rodrigo

13)                      Così conclude Moravia:

In realtà l’ideale del Manzoni ha limiti angusti dettati dal conservatorismo. E’ l’ideale del buon padrone che guarda con benevolenza, con affetto, con umanità ai semplici che lavorano per lui, ma non dimentica un sol momento che è il padrone. L’ideale, per dirla col Manzoni stesso, del marchese erede di don Rodrigo.

 

14)                      Chiariamo di che si tratta. Dopo la morte di peste di don Rodrigo, arriva al suo posto un nuovo feudatario. Costui, a differenza di don Rodrigo, è un uomo buono, in buoni rapporti col cardinale Borromeo e intende fare del bene a Renzo e Lucia. Poiché questi, in procinto di trasferirsi nel bergamasco, vogliono vendere ciò che possiedono nel paese (una vigna e le loro modestissime case), il marchese acquista il tutto pagando un prezzo molto superiore al valore di quei beni. Quindi invita a pranzo nel suo palazzo i due sposi, Agnese, la mercantessa (una brava donna che Lucia aveva conosciuto al lazzaretto) e don Abbondio. Ed ecco la conclusione:

Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì un poco a far compagnia agl’invitati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l’ho dato per un brav’uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v’ho detto ch’era umile, non già che fosse un portento d’umiltà. N’aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari.



[1] Geri Spina, politico fiorentino, ospitava gli ambasciatori del papa. Passeggiando con questi per strada, ed essendo tutti assetati, accetta dell’ottimo e fresco vino bianco che Cisti offre loro su un tavolo davanti alla sua bottega (e questo si ripete per più giorni). Quando gli ambasciatori devono partire, Geri organizza un banchetto e invita anche Cisti, ma questi si rifiuta perché si sente estraneo a quella compagnia. Geri manda allora un servo con un fiasco per chiedere a Cisti un po’ del suo buon vino. Ma il servo va con una damigianina e non con un fiasco. Alla sua richiesta, ripetuta più volte, Cisti risponde “Geri non ti manda da me”. “E da chi?” chiede infine il servo. “Ad Arno”, risponde Cisti. Il servo riferisce la risposta e Geri capisce, vede la damigianina e gli impone di andare con un fiasco. Adesso Cisti è soddisfatto e consegna al servo non un fiasco ma una botticella del suo vino.