Lucrezio: la filosofia di Epicuro
11) Queste considerazioni di Freud
sull’amore e sulla morte mi hanno sempre fatto pensare ad un poeta latino, Lucrezio, autore di un poema filosofico, il
De rerum natura, la natura delle
cose. Ebbene, nell’introduzione del suo poema Lucrezio sembra anticipare, a
modo suo, con riferimenti poetici alle divinità, le ipotesi di Freud sulla
natura degli istinti.
12) Leggeremo alcuni versi di quella
introduzione, ma prima sarà bene dire qualche parola sull’autore e sul suo
poema. Ho detto che si tratta di un poema filosofico, infatti Lucrezio si propone
niente meno che di esporre in lingua latina i principi della filosofia
epicurea. Ritiene infatti che questa
filosofia sia benefica per gli uomini, in quanto dà loro la consapevolezza, la
conoscenza razionale, della reale natura delle cose, li libera dalle paure
irrazionali, prima di tutto dalla madre di tutte le paure, la paura della morte.
Ma è una filosofia materialista, pericolosamente sovversiva, dunque guardata
con diffidenza dal potere politico perché mina, per due aspetti, le fondamenta
stesse dello Stato romano: nega l'intervento degli dei nelle vicende terrene
(dunque attacca la religione come una superstizione da ignoranti) e,
professando il principio del "vivi nascosto" (in greco, lathe biòsas), predica l'astensione
dalla vita politica (laddove la partecipazione, l’impegno, il latino il negotium, è uno dei pilastri su cui si
regge lo Stato romano). E infatti Cicerone, perfetto rappresentante della
classe dirigente romana, diceva: tali idee dovrebbero essere proibite da un
censore piuttosto che confutate da un filosofo.
13) Non stupisce quindi
che Lucrezio e il suo poema non siano citati quasi mai dagli altri autori
latini e che siano così rari i manoscritti che ne tramandarono il testo durante
il Medioevo. C’è stata una sorta di congiura
del silenzio nei confronti di Lucrezio o, come si dice in latino, di damnatio memoriae, di condanna
all’oblio. Non stupisce che nel Medioevo
cristiano quel poema materialista e sostanzialmente ateo fosse intenzionalmente
trascurato dai monaci copisti. Non sto a fare la storia, molto avventurosa,
del ritrovamento dei rari e frammentari manoscritti e della faticosa
ricostruzione del testo originale. Basterà dire che il manoscritto fondamentale
è stato ritrovato a Fulda, in Germania, nel 1418; quel manoscritto è andato
perduto, ma sulla base delle copie tratte da quello è stato ricostruito il
testo del De rerum natura.
14) La filosofia di Epicuro predica la ricerca
del piacere (voluptas in latino, edonè in greco), ma il piacere di cui si
parla non è il piacere materiale, il piacere delle gozzoviglie, il piacere
dei dissoluti, come volgarmente si crede quando si dice di qualcuno che “vive
da epicureo”, e nemmeno è il piacere che si pensa di ottenere inseguendo onori
e ricchezze. Questi sono falsi piaceri (Epicuro parla di piacere “cinetico” o dinamico o in movimento, ed è un piacere che
genera inquietudine, turbamento e sofferenza), mentre il vero piacere è “catastematico”, ovvero statico, e si realizza come
libertà da ogni agitazione dell’animo e consiste in aponìa (mancanza di dolore) e in atarassìa (mancanza di turbamento: tale è la condizione degli
dei, che infatti non si interessano delle vicende umane, altrimenti ne
sarebbero turbati). Per il resto, basta
poco: non aver fame, non sete, non freddo, giacchè, secondo il motto del
maestro, “niente basta a colui per il quale è poco ciò che basta”.
15) Ed ecco il
cosiddetto “tetrafarmaco”, ovvero le
quattro medicine che guariscono dai quattro mali fondamentali che impediscono
il raggiungimento del piacere: contro la
paura degli dei e delle punizioni dopo la morte, bisogna sapere che gli dei
vivono in condizione di atarassia e dunque non si interessano delle vicende
umane; contro la paura della morte
bisogna sapere che la morte non ci riguarda, perché, come dice il maestro,
“quando ci sono io non c’è la morte e quando c’è la morte non ci sono io”; contro la paura che il piacere non sia
raggiungibile, bisogna sapere che basta soddisfare, con giusta misura, i
bisogni naturali; contro la paura del
dolore, bisogna sapere che il dolore è sopportabile, perché se è debole ci
si convive, se è acuto non può che passare presto.
Lucrezio:
eros e thanatos nell’inno a Venere
16) Con tutto ciò, che
c’entrano l’amore e la morte nel senso in cui ne parlava Freud? C’entrano,
secondo me, se leggiamo l’introduzione al poema, il famoso inno a Venere. Ma come, si sono chiesti molti lettori, il
poeta che dice che gli dei sono estranei alla vicende umane (il che equivale,
se ci pensate bene, a negarne l’esistenza), dedica un inno ad una dea, prega,
come vedremo per un suo intervento? Il problema si risolve se si pensa che Venere è la dea dell’amore, dunque in lei
Lucrezio personifica quella forza, quell’istinto che spinge gli uomini e gli
animali ad amare e a riprodursi.
L’inno si apre infatti con una celebrazione
della primavera, che è la stagione in cui la potenza di Venere, ovvero
l’istinto ad amare, fa sentire maggiormente la sua forza:
Madre
dei discendenti di Enea (sono i Romani,
secondo il mito discendenti di Enea, il quale a sua volta era figlio di Venere)
piacere (voluptas) degli uomini e
degli dèi, Venere che dai la vita, che sotto le mobili costellazioni celesti
popoli il mare portatore di navi e la terra fertile di messi, poiché grazie a
te ogni genere di esseri animati è concepito e vede, (una volta) nato, la luce
del sole: te, dea, te fuggono i venti, te ed il tuo arrivo le nuvole del cielo,
per te la terra industriosa fa crescere i fiori soavi, per te sorridono le
distese marine, e, rasserenato, il cielo brilla di una luce diffusa. Infatti,
non appena la bellezza del giorno primaverile [la bellezza primaverile del
giorno] si svela, ed il soffio fecondo del favonio, liberato, prende forza
(il favonio è un vento primaverile,
perciò chiamato genitabilis, fecondo, vivificatore, perché stimola ad amare e
quindi a generare nuove vite) per prima cosa gli uccelli del cielo
annunciano te e il tuo arrivo, o dea, colpiti in cuore dalla tua potenza.
Quindi le bestie feroci e le greggi balzano qua e là per i pascoli rigogliosi
ed attraversano i fiumi vorticosi: così (ciascuna bestia), presa dal (tuo)
fascino, ti segue desiderosa ovunque tu voglia condurla. Infine per i mari ed i
monti ed i fiumi impetuosi e per le frondose dimore degli uccelli ed i campi
verdeggianti, ispirando a tutti nel cuore un soave (sentimento d’) amore, fai
sì che con desiderio propaghino le loro generazioni stirpe per stirpe. E
poiché tu sola governi la natura, e senza di te nulla nasce nelle divine spiagge
della luce, e nulla diviene lieto né amabile, desidero che tu (mi) sia compagna
nello scrivere (questi) versi, che tento di comporre sulla natura per il nostro
Memmio (Gaio Memmio è l’amico a cui
Lucrezio dedica il poema), che tu, o dea, hai voluto eccellesse in ogni
tempo, adorno di ogni qualità. Tanto più, dunque, concedi, o dea, un piacere
inestinguibile alle (mie) parole.
17) Ora però, poiché
Memmio è impegnato in guerra e quindi non può ascoltare gli insegnamenti della
filosofia epicurea (Lucrezio non lo dice e noi non sappiamo di quale guerra si
tratti), nella seconda parte dell’inno il
poeta implora Venere (la dea dell’amore, portatrice di vita) perchè col suo
fascino seduca Marte (il dio della guerra, portatore di morte) e così facendo
indebolisca la sua potenza e gli
impedisca di scatenarsi sui campi di battaglia, in altre parole, perché l’amore
vinca sulla morte:
Fa’
che frattanto i feroci impegni della guerra, per mare e per
terra, spenti, si acquetino. Infatti tu sola puoi giovare ai mortali con
una tranquilla pace, perché le feroci occupazioni della guerra (le) governa
Marte potente nelle armi, che spesso si abbandona sul tuo grembo, vinto
dall’eterna ferita d’amore; e così levando lo sguardo (suspiciens, letteralmente guardando dal basso verso l’alto, perché
appunto l’immagine è quella di Marte che ha posato la sua testa sul grembo di
Venere) reclinato il morbido collo, nutre d’amore gli avidi sguardi,
anelando a te (inhians, cioè respirando a
bocca aperta), o dea, e dalla tua bocca pende il respiro (di lui)
abbandonato (su di te). E tu, o dea, abbracciando (circumfusa super, letteralmente abbracciandolo da sopra) con il tuo
santo corpo lui (così) disteso, emetti dalla (tua) bocca soavi parole,
chiedendo(gli) per i Romani, o ìnclita, una tranquilla pace. Infatti né io
posso scrivere con animo sereno in un tempo nefasto per la patria,
né l’illustre stirpe di Memmio (può) venir meno alla salvezza comune in tali
circostanze.
18) L’idea di Lucrezio è che solo la forza dell’amore possa annullare, o
almeno indebolire, la forza della guerra, della distruzione, della morte. Non
mi pare difficile riconoscere in Venere
e Marte le due potenze celesti di cui parla Freud, e, analogamente, come, per
Lucrezio, solo Venere può frenare Marte, così Freud è convinto che solo Eros
può bloccare la potenza distruttiva di Thanatos.
Lucrezio: liberarsi dall’innamoramento
19) L’amore, inteso
come eros, è dunque una buona cosa.
Quel che non è buono, per Lucrezio,
è l’innamoramento, l’amore come passione
che sconvolge la mente. Questo amore va contro i principi della filosofia
epicurea che indica come obiettivo l’assenza di turbamenti, mentre l’amore
passionale comporta turbamenti al massimo grado.
20) Apro una
parentesi: l’unica notizia biografica di Lucrezio l’abbiamo da S. Gerolamo, che visse nel IV sec. d.C.
(dunque parecchi secoli dopo Lucrezio, che era vissuto nel I sec. a.C.) e dice
che Lucrezio impazzì per un filtro
d’amore, scrisse la sua opera negli intervalli della pazzia e infine si suicidò.
Chissà dove ha preso Gerolamo questa notizia, ma certo, fondata o meno che
fosse, sembra contribuire alla
diffamazione di Lucrezio, autore di un poema ateo e materialista. Il filtro
d’amore indica un innamoramento che sconvolge la mente al punto di togliere il
senno e infine indurre al suicidio. La massima punizione, un vero e proprio contrappasso per chi ha voluto insegnare agli
altri come condizione ideale quella dell’atarassia, ovvero dell’assenza di
turbamento. Leggo alcuni passi sull’argomento:
Questa è
Venere per noi; e di qui viene il nome di amore, di qui nel cuore stillò la
prima goccia della dolcezza di Venere, e ne seguì un gelido affanno. Infatti,
se è assente l'oggetto del tuo amore, son tuttavia presenti le sue immagini, e
il dolce nome non abbandona le tue orecchie. Ma conviene fuggire quelle
immagini e respingere via da sé ogni attrattiva che alimenti l'amore e volgere
la mente ad altro oggetto e spandere in altri corpi, quali che siano, l'umore
raccolto, e non trattenerlo essendo rivolto all'amore d'una persona sola, e
così riservare a sé stesso affanno e sicuro dolore. Giacché la piaga
s'inacerbisce e incancrenisce, a nutrirla, e di giorno in giorno la follia
aumenta e la sofferenza s'aggrava, se non scacci con nuove piaghe le prime
ferite, e non le curi passando da uno a
un altro amore, o trovi modo di rivolgere altrove i moti dell'animo. Né dei
frutti di Venere è privo colui che evita l'amore, ma piuttosto coglie le gioie
che sono senza pena.
E poi più oltre:
Aggiungi che
sciupano le forze e si struggono nel travaglio; aggiungi che si trascorre la
vita al cenno di un'altra persona.
Son
trascurati i doveri, e ne soffre il buon nome e vacilla. Frattanto il
patrimonio si dilegua, e si converte in profumi babilonesi, e bei sandali di
Sicione ai piedi ridono, e grandi smeraldi dai riflessi verdi sono incastonati
nell'oro, e la veste color di mare si sciupa per l’uso ininterrotto, e
maltrattata s’imbeve del sudore di Venere; e i beni dei padri, guadagnati
onestamente, diventano bende, diademi, talora si tramutano in un mantello
femminile e in tessuti di Alinda e di Ceo. S'apparecchiano conviti con
splendide tovaglie e vivande, giochi, libagioni senza risparmio, unguenti,
corone, serti, ma invano, perché di mezzo alla fonte delle delizie sorge
qualcosa di amaro che pur tra i fiori angoscia, o quando per caso l'animo
conscio s'angustia per il rimorso d'una vita trascorsa nell'inerzia e perduta
tra i bagordi, o perché lei ha buttato lì, lasciandone in dubbio il senso, una
parola, che conficcata nel cuore appassionato divampa come fuoco, o perché gli
sembra che troppo lei getti occhiate o che il suo sguardo sia attratto da un
altro, e nel suo volto vede le tracce d'un sorriso. E questi mali si trovano in
un amore felice e pienamente corrisposto; ma, se è infelice e senza speranza,
ci sono mali innumerevoli che puoi cogliere anche ad occhi chiusi; sì che è
meglio stare prima all'erta, come ho insegnato, e guardarsi dall'essere
adescati. Difatti evitare di cadere nei lacci d'amore non è così difficile come
districarsi, una volta presi in mezzo alle reti, e spezzare i possenti nodi di
Venere. E tuttavia, anche avviluppato e inceppato, potresti sfuggire all'insidia,
se proprio tu non opponessi ostacoli a te stesso, e non ti celassi in primo
luogo tutti i difetti dell'animo o quelli del corpo di colei che prediligi e
desideri.
21) Seguono
poi degli insegnamenti per liberarsi
dall’innamoramento, il primo dei quali consiste nel riconoscere i difetti
dell’animo e del corpo della donna di cui si è innamorati, quei difetti che
l’innamorato, reso cieco dall’amore, non vede e anzi vede come pregi. Lucrezio
ne fa un elenco:
E tuttavia, anche preso e avvinghiato, potresti
sfuggire all'insidia, se proprio tu non opponessi ostacoli a te stesso, e non
ti celassi in primo luogo tutti i difetti dell'animo o quelli del corpo di
colei che prediligi e desideri. Questo infatti fanno per lo più gli uomini
accecati dalla passione, e attribuiscono alle amate pregi ch'esse non
posseggono davvero. Così vediamo che donne per molti aspetti brutte e corrotte sono
adorate e godono del più alto onore. E poi (gli innamorati) si deridono a vicenda,
e l'uno invita l'altro a placare Venere, perché lo affligge un brutto amore, e
spesso non scorge, l'infelice, i propri mali, che sono i più grandi. Una di pelle
scura "ha il colore del miele", la sudicia e sciatta è "semplice",
se ha occhi verdastri è "l'immagine di Pallade", se è nervosa e secca
è "una gazzella", la piccoletta, la nanerottola, è "una delle
Grazie, tutto pepe", se è un donnone sgraziato è "un prodigio"
ed è "piena di maestà". La balbuziente, che non può parlare,
"cinguetta", la muta è "pudica"; e l'irruente, odiosa,
linguacciuta è "tutta fuoco". Diventa "un sottile amorino",
quando per magrezza ha nel volto l’aspetto della morte; se poi sta morendo di tosse, "poverina, è
delicata". E la grassa e popputa è "Cerere stessa dopo aver partorito
Bacco", se ha il naso camuso è "una Silena" e "una
Satira", se ha i labbroni è "una boccuccia da schioccarvi baci".
Troppo mi dilungherei, se tentassi di dire tutte le altre cose di questa
specie. Ma tuttavia sia pure bella in volto quanto vuoi, sia tale che da tutte
le sue membra promani il potere di Venere: certo ce ne sono anche altre; certo
senza di lei siamo vissuti per l'addietro (…)
22) Dunque bisogna liberarsi dalla passione d’amore,
che sconvolge la mente e non consente una vita serena. Facile a dirsi, non
altrettanto a farsi, se ha qualche fondamento la notizia di S. Gerolamo,
secondo cui lo stesso Lucrezio non
sarebbe stato capace di seguire i propri insegnamenti e sarebbe stato vittima
di una passione d’amore talmente sconvolgente da portarlo alla pazzia e infine
al suicidio.
Lucrezio:
liberarsi dalla paura della morte
23) Chissà se è stato capace di liberarsi dalla paura della morte, che è la madre di tutte le paure, la
causa prima che ostacola il raggiungimento del piacere e quindi la possibilità
di vivere una vita serena. La liberazione da questa paura è al centro della
filosofia di Epicuro, ed è possibile giungervi se ci si libera di tutte le superstizioni
e false credenze e ci si affida
completamente alla conoscenza scientifica della natura.
24) Tale conoscenza ci dice che tutta la realtà è
costituita di atomi, particelle materiali indivisibili e indistruttibili che
differiscono per grandezza, forma e peso; gli atomi, incontrandosi nel vuoto e
aggregandosi fra loro, formano i corpi. Anche
l’anima è fatta di atomi, più leggeri e meno connessi di quelli del corpo.
La morte non è altro che una disaggregazione di tali atomi, sia di quelli del
corpo che di quelli dell’anima. E’
l’idea che l’anima persista, e con essa persistano la coscienza e la memoria, a
generare angoscia, mentre invece con
la disaggregazione degli atomi cessa ogni forma di coscienza e di sensibilità,
e dunque non ci può essere alcuna sofferenza perché, appunto, quando c’è la morte non ci siamo più noi.
Ci dà angoscia il vederci inumati sotto terra o cremati in un rogo, ma è perché
proiettiamo la nostra coscienza e sensibilità laddove coscienza e sensibilità
non esistono più:
Ma, poiché la morte annulla l’esistenza, con ciò
impedisce che esista colui che dovrebbe subire quelle sofferenze; dunque è
chiaro che niente noi dobbiamo temere nella morte, e che non può divenire
infelice chi non esiste affatto, né fa alcuna differenza se egli sia nato o non
sia nato in alcun tempo, quando la vita mortale è annullata dalla morte
immortale. Quindi, se vedi un uomo dolersi della propria sorte,
perché dopo la morte dovrà, sepolto il corpo, putrefarsi o essere distrutto
dalle fiamme o dalle mascelle delle fiere, puoi capire che le sue parole non
suonano sincere e che in fondo al suo cuore c'è qualche pungolo segreto, benché
egli asserisca di non credere che da morto avrà qualche sensazione. Infatti, io
credo, dimostra in ciò di non avere coerenza, né si toglie e si distacca dalla
vita radicalmente, ma presuppone inconsciamente che qualcosa di sé gli sopravviva. Ognuno infatti
che da vivo si immagina che dopo la morte uccelli e fiere sbraneranno il suo
corpo, commisera sé stesso; e infatti non riesce a staccarsi da lì, né si
allontana abbastanza dal cadavere buttato lì e si immagina di essere proprio
quello e, standogli accanto, gli comunica i propri sensi. Per questo si duole
d'esser nato mortale e non vede che nella vera morte non ci sarà un altro sé
stesso che possa, vivo, piangere sé stesso morto e, stando lì in piedi,
lamentarsi di giacere a terra e d'essere sbranato o bruciato.
25) Con la
morte non esiste più la nostra individualità cosciente, come non esisteva prima
che nascessimo; gli atomi si sono disaggregati e non compongono più quella
individualità concreta che sono io, così come non la componevano prima che
nascessimo; e come nessuna sofferenza abbiamo patito prima della nascita, così
nessuna sofferenza patiremo dopo la morte. E
quand’anche in futuro gli atomi si ricomponessero allo stesso modo,
ricostituendo la stessa individualità (è l’ipotesi della cosiddetta
metempsicosi, ovvero della rinascita o reincarnazione), ebbene nemmeno
questo ci riguarderebbe, perché sarebbe sempre un altro io, senza alcuna
memoria dell’io precedente:
Nulla dunque la morte è per noi, e per niente ci
riguarda, dal momento che la natura dell'animo è da ritenersi mortale. E come
nel tempo passato non provammo alcuna sofferenza, mentre i Cartaginesi da ogni
parte venivano ad assalirci, quando tutto il mondo, sconquassato dal trepido
tumulto della guerra, tremò d'orrore sotto le alte volte del cielo, e fu dubbio
sotto il regno di quale dei due popoli dovessero cadere tutti gli uomini sulla
terra e sul mare, così quando noi non ci saremo più, quando sarà avvenuto il
distacco del corpo e dell'anima, che uniti compongono il nostro essere, certo a
noi, che allora non saremo più, non potrà affatto capitare alcun malanno, nulla
potrà colpire i nostri sensi, neppure se la terra si mescolerà col mare e il
mare col cielo
26) Il riferimento ai Cartaginesi è il riferimento a quella guerra terribile che
fu la seconda Punica, una guerra fra due super-potenze, quali erano allora
Roma e Cartagine. Annibale trasportò un esercito, uomini ed elefanti, dalla
Spagna in Italia, attraverso i Pirenei e le Alpi. Le legioni romane subirono
più di una sconfitta, morirono decine di migliaia di uomini e tutta l’Italia visse nel terrore finchè
il console Scipione non riuscì ad avere la meglio sul nemico invasore. Ebbene,
dice Lucrezio, noi, che non eravamo ancora nati, non abbiamo provato alcuna
sofferenza, così come oggi noi, che non
eravamo nati al tempo della II guerra mondiale, potremmo dire che non abbiamo
provato alcuna sofferenza quando invece chi era vivo era terrorizzato per i
bombardamenti degli alleati o per i rastrellamenti dei Tedeschi. Allo
stesso modo, dice Lucrezio, nessuna
sofferenza patiremo quando saremo morti, nemmeno se ci sarà una catastrofe
universale (neppure se la terra si
mescolerà col mare e il mare col cielo). E così continua:
(…) E quand'anche il tempo raccogliesse la nostra
materia dopo la morte e di nuovo la ricomponesse nell'assetto in cui si trova
ora e a noi fosse ridata la luce della vita, tuttavia neppure questo evento ci riguarderebbe
minimamente, una volta che fosse interrotta la continuità della nostra
coscienza. Così ora a noi non importa nulla di noi, quali fummo in precedenza, ‹né›
ormai per quel nostro essere ci affligge angoscia. E invero, se volgi lo
sguardo verso tutto lo spazio trascorso del tempo illimitato, e consideri
quanto siano molteplici i movimenti della materia, facilmente puoi indurti a
credere che questi stessi atomi, di cui siamo composti ora, già prima siano
stati spesso disposti nel medesimo ordine in cui sono ora. Eppure non possiamo riafferrare
con la memoria quell'esistenza; s'è interposta infatti una pausa della vita e tutti
i moti si sviarono per ogni dove, lontano dai sensi. Infatti, se sventura e
affanno devono colpire qualcuno, occorre che esista quella stessa persona in
quel tempo in cui possa colpirlo la sventura.