Olindo e Sofronia
dalla Gerusalemme Liberata (canto II, 14-36)
Il re di Gerusalemme, Aladino, su consiglio del mago Ismeno, aveva fatto prelevare da una chiesa cristiana l’immagine della Vergine e l’aveva fatta trasportare in una moschea. Questo, secondo il mago, avrebbe reso inespugnabile Gerusalemme. Ma qualcuno aveva sottratto l’immagine dalla moschea e Aladino, infuriato, aveva dato ordine che tutti i cristiani di Gerusalemme fossero trucidati. Per evitare ciò, la cristiana Sofronia decide di autoaccusarsi del furto.   
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        14         Vergine era fra lor di già matura  
               verginità,  d'alti pensieri e regi,  
               d'alta  beltà; ma sua beltà non cura,  
               o  tanto sol quant'onestà se 'n fregi.  
               È il suo pregio maggior che  tra le mura  
               d'angusta  casa asconde i suoi gran pregi,  
               e de' vagheggiatori ella s'invola  
               a le  lodi, a gli sguardi, inculta e sola.  
        15         Pur guardia esser non può ch'in tutto celi  
               beltà  degna ch'appaia e che s'ammiri;  
               né tu  il consenti, Amor, ma la riveli  
               d'un giovenetto a i cupidi desiri.  
               Amor, ch'or  cieco, or Argo, ora ne veli  
               di benda gli  occhi, ora ce gli apri e giri,  
               tu  per mille custodie entro a i più casti  
               verginei  alberghi il guardo altrui portasti.  
        16         Colei Sofronia, Olindo egli  s'appella,  
               d'una   cittate entrambi e d'una fede.  
               Ei che modesto è sì com'essa è  bella,  
               brama  assai, poco spera, e nulla chiede;  
               né sa  scoprirsi, o non ardisce; ed ella 
               o lo  sprezza, o no 'l vede, o non s'avede.  
               Così fin ora il misero ha  servito  
               o non  visto, o mal noto, o mal gradito.  
        17         S'ode  l'annunzio intanto, e che s'appresta  
               miserabile  strage al popol loro.  
               A lei, che generosa è quanto  onesta  
               viene  in pensier come salvar costoro.  
               Move  fortezza il gran pensier, l'arresta  
               poi  la vergogna e 'l verginal decoro;  
               vince  fortezza, anzi s'accorda e face  
               sé  vergognosa e la vergogna audace.  
        18         La vergine tra 'l   vulgo uscì soletta,  
               non  coprì sue bellezze, e non l'espose,  
               raccolse  gli occhi, andò nel vel ristretta,  
               con ischive maniere e generose.  
               Non sai ben  dir s'adorna o se negletta,  
               se caso  od arte il bel volto compose.  
               Di natura, d'Amor, de' cieli  amici  
               le  negligenze sue sono artifici.  
        19         Mirata da ciascun passa, e  non mira  
               l'altera  donna, e innanzi al re se 'n viene.  
               Né,  perché irato il veggia, il piè ritira,  
               ma il  fero aspetto intrepida sostiene.  
               - Vengo, signor, - gli disse -  e 'ntanto l'ira  
               prego  sospenda e 'l tuo popolo affrene:  
               vengo  a scoprirti, e vengo a darti preso  
               quel  reo che cerchi, onde sei tanto offeso. -  
        20         A l'onesta  baldanza, a l'improviso  
               folgorar  di bellezze altere e sante,  
               quasi  confuso il re, quasi conquiso,  
               frenò  lo sdegno, e placò il fer sembiante.  
               S'egli era d'alma o se costei  di viso  
               severa  manco, ei diveniane amante; 
               ma  ritrosa beltà ritroso core  
               non  prende, e sono i vezzi esca d'Amore.  
        21         Fu stupor, fu vaghezza, e fu  diletto,  
               s'amor  non fu, che mosse il cor villano.  
               - Narra - ei le dice - il  tutto; ecco, io commetto  
               che  non s'offenda il popol tuo cristiano. -  
               Ed ella:  - Il reo si trova al tuo cospetto:  
               opra  è il furto, signor, di questa mano;  
               io l'imagine tolsi, io son colei  
               che  tu ricerchi, e me punir tu déi. -  
        22         Così al publico  fato il capo altero  
               offerse,  e 'l volse in sé sola raccòrre.  
               Magnanima menzogna, or quand'è  il vero  
               sì  bello che si possa a te preporre?  
               Riman  sospeso, e non sì tosto il fero  
               tiranno  a l'ira, come suol, trascorre.  
               Poi la richiede: - I' vuo' che tu mi scopra  
               chi diè consiglio, e chi fu insieme a l'opra. -  | 
       23         -  Non volsi far de la mia gloria altrui  
               né  pur minima parte; - ella gli dice  
               - sol di me stessa io consapevol fui,  
               sol  consigliera, e sola essecutrice. -  
               - Dunque  in te sola - ripigliò colui  
               - caderà l'ira  mia vendicatrice. -  
               Diss'ella: - È giusto: esser a me conviene,  
               se  fui sola a l'onor, sola a le pene. -  
        24         Qui comincia il tiranno a risdegnarsi;  
               poi  le dimanda: - Ov'hai l'imago  ascosa?  
               - Non la nascosi, - a lui  risponde - io l'arsi,  
               e  l'arderla stimai laudabil cosa;  
               così almen non potrà più violarsi  
               per  man di miscredenti ingiuriosa. 
               Signore, o chiedi il furto, o  'l ladro chiedi:  
               quel  no 'l vedrai in eterno, e questo il vedi.  
        25         Benché né furto è il mio, né ladra i' sono:    
               giust'è ritòr ciò ch'a  gran torto è tolto. -  
               Or, quest'udendo,  in minaccievol suono  
               freme il  tiranno, e 'l fren de l'ira è sciolto.  
               Non speri più di ritrovar  perdono  
               cor  pudico, alta mente e nobil volto;  
               e 'ndarno Amor contr'a lo sdegno  crudo  
               di  sua vaga bellezza a lei fa scudo.  
        26         Presa è la bella donna, e 'ncrudelito  
               il re  la danna entr'un incendio a morte.  
               Già 'l velo  e 'l casto manto a lei rapito,  
               stringon le molli braccia aspre ritorte.  
               Ella  si tace, e in lei non sbigottito,  
               ma  pur commosso alquanto è il petto forte;  
               e  smarrisce il bel volto in un colore  
               che  non è pallidezza, ma candore.  
        27         Divulgossi  il gran caso, e quivi tratto  
               già  'l popol s'era: Olindo anco  v'accorse.  
               Dubbia era la persona e certo  il fatto;  
               venia,  che fosse la sua donna in forse.  
               Come la bella prigionera in atto  
               non pur di rea, ma  di dannata ei scorse,  
               come  i ministri al duro ufficio intenti  
               vide,  precipitoso urtò le genti.  
        28         Al re gridò: - Non è, non è già rea  
               costei  del furto, e per follia se 'n vanta.  
               Non pensò,  non ardì, né far potea  
               donna  sola e inesperta opra cotanta.  
               Come ingannò i custodi? e de la Dea  
               con  qual arti involò l'imagin santa?  
               Se 'l  fece, il narri. Io l'ho, signor, furata. -  
               Ahi! tanto  amò la non amante amata. 
               (…………………………………..) 
        33         Composto è lor  d'intorno il rogo omai,  
               e già  le fiamme il mantice v'incita,  
               quand'il  fanciullo in dolorosi lai  
               proruppe,  e disse a lei ch'è seco unita:  
               - Quest'è  dunque quel laccio ond'io sperai    
               teco  accoppiarmi in compagnia di vita?  
               questo  è quel foco ch'io credea ch'i cori  
               ne  dovesse infiammar d'eguali ardori?  
        34         Altre fiamme, altri nodi Amor  promise,  
               altri  ce n'apparecchia iniqua sorte.  
               Troppo, ahi! ben troppo, ella già noi divise,  
               ma  duramente or ne congiunge in morte.  
               Piacemi   almen, poich'in sì strane  guise  
               morir  pur déi, del rogo esser consorte,  
               se  del letto non fui; duolmi il tuo fato,  
               il  mio non già, poich'io ti moro a lato.  
        35           Ed oh mia sorte aventurosa a pieno!  
               oh  fortunati miei dolci martìri!  
               s'impetrarò che, giunto seno a seno,  
               l'anima  mia ne la tua bocca io spiri;  
               e  venendo tu meco a un tempo meno,  
               in me  fuor mandi gli ultimi sospiri. -  
               Così dice piangendo. Ella il ripiglia  
               soavemente,  e 'n tai detti il consiglia:  
        36         - Amico, altri pensieri, altri  lamenti,  
               per  più alta cagione il tempo chiede.  
               Ché  non pensi a tue colpe? e non rammenti  
               qual  Dio prometta a i buoni ampia mercede?  
               Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti,  
               e  lieto aspira a la superna sede.  
               Mira 'l   ciel com'è bello, e mira il sole  
               ch'a  sé par che n'inviti e ne console. -  | 
 
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