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giovedì 3 dicembre 2015

Bembo: qual è il "buono amore"

da Gli Asolani (1505)
 
3. VI (parla Lavinello)… Perciò che è verissima openione, a noi dalle più approvate scuole de gli antichi diffinitori lasciata, nulla altro essere il buono amore che di bellezza disio. La qual bellezza (…) non è altro che una grazia che di proporzione e di convenenza nasce e d'armonia nelle cose, la quale quanto è più perfetta ne' suoi suggetti, tanto più amabili essere ce gli fa e più vaghi, e è accidente ne gli uomini non meno dell'animo che del corpo. Perciò che sì come è bello quel corpo, le cui membra tengono proporzione tra loro, così è bello quello animo, le cui virtù fanno tra sé armonia; e tanto più sono di bellezza partecipi e l'uno e l'altro, quanto in loro è quella grazia, che io dico, delle loro parti e della loro convenenza, più compiuta e più piena. È adunque il buono amore disiderio di bellezza tale, quale tu vedi, e d'animo parimente e di corpo, e a lei, sì come a suo vero obbietto, batte e stende le sue ali per andare. Al qual volo egli due finestre ha: l'una, che a quella dell'animo lo manda, e questa è l'udire; l'altra, che a quella del corpo lo porta, e questa è il vedere. Perciò che sì come per le forme, che a gli occhi si manifestano, quanta è la bellezza del corpo conosciamo, così con le voci, che gli orecchi ricevono, quanta quella dell'animo sia comprendiamo. Né ad altro fine ci fu il parlare dalla natura dato, che perché esso fosse tra noi de' nostri animi segno e dimostramento. Ma perciò che il passare a' loro obbietti per queste vie la fortuna e il caso sovente a' nostri disiderii tôr possono, da loro, sì come spesso aviene, lontanandoci, ché, come tu dicesti, a cosa, che presente non ci sia, l'occhio né l'orecchio non si stende, quella medesima natura, che i due sentimenti dati n'avea, ci diede parimente il pensiero, col quale potessimo al godimento delle une bellezze e delle altre, quandunque a noi piacesse, pervenire. Con ciò sia cosa che, sì come ci ragionasti tu hieri lungamente, e le bellezze del corpo e quelle dell'animo ci si rappresentano col pensarvi, e pìgliassene, ogni volta che a noi medesimi piace, senza alcuno ostacolo godimento. Ora, sì come alle bellezze dell'animo aggiugnere né fiutando, né toccando, né gustando non si può, così non si può né più né meno eziandio a quelle del corpo, perciò che questi sentimenti tra le siepi di più materiali obbietti si rinchiudono, che non fanno quegli altri. Che perché tu fiutassi di questi fiori o la mano stendessi tra quest'erbe o gustassine, bene potresti tu sentire quale di loro è odorante, quale fiatoso, quale amaro, quale dolce, quale aspero, quale morbido, ma che bellezza sia la loro, se tu non gli mirassi altresì, mica non potresti tu conoscere, più di quello che potesse conoscere un cieco la bellezza d'una dipinta imagine, che davanti recata gli fosse. Per che se il buono amore, come io dissi, è di bellezza disio, e se alla bellezza altro di noi e delle nostre sentimenta non ci scorge che l'occhio e l'orecchio e il pensiero, tutto quello che è da gli amanti con gli altri sentimenti cercato, fuori di ciò che per sostegno della vita si procaccia, non è buono amore, ma è malvagio; e tu in questa parte amatore di bellezza non sarai, o Gismondo, ma di sozze cose…


mercoledì 15 aprile 2015

Sul Rinascimento (II parte)


7)      Fatta questa premessa, si tratta di mettere a fuoco un passaggio decisivo per caratterizzare la pienezza del Rinascimento, ovvero l’affermarsi del cosiddetto ideale della kalòkagathìa. Il pieno Rinascimento si ha quando presso le corti, e quindi presso la cultura, si diffonde l’idea che la bellezza (intesa in senso classico, come armonia, equilibrio, serenità, luminosità), sia intrinsecamente buona, sia manifestazione sensibile del divino sulla terra. E’ un ideale elaborato presso la corte medicea di Lorenzo, alla fine del Quattrocento, ed è un’elaborazione a cui contribuisce in maniera decisiva il pensiero neoplatonico di Marsilio Ficino:  la luce - che è Dio - si manifesta in tutto il creato; l’anima la ritrova nel mondo come bellezza, ovvero ordine, proporzione, armonia; la bellezza è dunque “visibilità della luce interiore, dell’arte intima alle cose”; contemplarla è ritrovare nelle cose il raggio divino, ossia la strada per risalire a Dio (e dunque: se questo mondo non è che una rappresentazione imperfetta del mondo delle idee, dei modelli puri, ecco che il platonismo trapassa nel cristianesimo; ed anche: se la bellezza è un segno del divino, ecco fondato l’ideale della kalòkagathìa).

8)      Nelle arti figurative,

·         da Masaccio (preso come esempio di un’arte che riscopre la realtà, con la sua pesantezza – si pensi alla solidità voluminosa delle sue figure – e con la sua drammaticità – si pensi alla cacciata di Adamo ed Eva)

 

·         si passa a Botticelli (che opera alla corte di Lorenzo e che ci rappresenta una realtà idealizzata, una realtà “bella”, inquadrata secondo ordine e armonia: si pensi a opere come La nascita di Venere: quest’ultima, così poco realistica – ad esempio, nella lunghezza del collo, nelle spalle spioventi, nella strana torsione del braccio sinistro - eppure capace di evocare il sentimento di un’armonia superiore;



 o La Primavera, che sembra essere perfetta come sfondo per le Stanze per la giostra di Poliziano, che, non a caso, opera negli stessi anni e nello stesso ambiente)


9)      Ma torniamo alla kalòkagathìa. La trattatistica del Cinquecento insiste su questa idea che la bellezza vada ricercata ed amata, perché essa ci conduce al divino. Ho scelto dei passi di autori diversi, per mostrare la consistenza e la diffusione di questa idea. 

·         C’è un passo degli Asolani  in cui Bembo teorizza che il vero amore è desiderio della vera bellezza, un amore che nasce sul fondamento di due sensi (la vista e l’udito: il primo riconosce la bellezza del corpo, il secondo quella dell’animo), ma che conduce, attraverso il pensiero (che consente di amare la bellezza a prescindere dalla sua presenza), alla contemplazione del mondo trascendente.

·         Leggo poi un brano tratto da un dialogo di Angelo Firenzuola, il Dialogo delle bellezze delle donne, laddove non solo si ribadisce l’idea che la bellezza sia, nel mondo in cui viviamo, l’unico elemento che ci lascia intravedere il mondo perfetto di cui il nostro è una copia imperfetta, ma anche si danno indicazioni precise su quali debbano essere le giuste proporzioni perché si abbia quell’armonia che è propria della bellezza. Ho scelto solo il passo in cui si parla della fronte, ma poi il discorso continua (sugli occhi, sul naso, sulla bocca, ecc.). L’idea è che l’armonia sia riconducibile a precisi rapporti matematici e a precise figure geometriche (si pensi a Leonardo, che inscrive in un cerchio la figura umana).

10)  E poi c’è un passo esemplare, tratto dall’opera, Il cortegiano, che è considerata, giustamente, quella in cui trovano compiuta espressione gli ideali della cultura rinascimentale. Si propone il modello del perfetto uomo di corte, ma siccome l’uomo di corte è, in quella società, l’uomo per eccellenza, quello che ci viene proposto è il modello di uomo al suo più alto grado. Ed è un uomo, il passo in questione ce lo fa ben capire, dotato di “grazia”, che altro non è che la bellezza e l’armonia trasposte nei comportamenti. Il modello è quello di un uomo che appare bello (e dunque anche buono, secondo l’ideale della kalòkagathìa) in quanto aggraziato. Notate che è importante apparire, a prescindere da quello che si è naturalmente. La grazia è il prodotto di uno studio, di un controllo e di una repressione della propria naturalità. La naturalità non può emergere spontaneamente, perché questo comporterebbe la perdita di armonia ed equilibrio. La libera e naturale espressione dei sentimenti non è consentita, perché ciò toglie grazia, ovvero armonia, e quindi bellezza,  ai comportamenti. Dunque l’uomo che ha in mente il Rinascimento è un uomo artificioso (che ovviamente nasconde l’artificiosità), che persegue l’obiettivo di un razionale autocontrollo,  inteso ad occultare e a reprimere l’immediatezza dei sentimenti