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domenica 10 aprile 2016

La figura dell'inetto nella letteratura fra Ottocento e Novecento (VIII parte)


Montale: “curarsi” dell’ombra

1)   A tale problematica sembrano ricondurci anche alcuni motivi presenti nella poesia di Montale. E non dovremo stupircene: una vicinanza di sensibilità fra i due autori è facilmente presumibile, se si pensa che Montale, come noto, è stato il primo lettore italiano a segnalare la novità e l’importanza di Svevo. Ebbene, quel senso di totale disarmonia con la realtà che mi circondava” (sono parole dello stesso Montale)[1], o “inadattamento” (davvero significativo il termine usato), rintracciabile in tanti componimenti delle sue raccolte, non può non ricordare il senso di estraneità al mondo circostante che caratterizza, e tormenta, “colui che non si adatta” nei romanzi sveviani; e simile sembra anche il sentimento contraddittorio, di ammirazione e disprezzo, espresso nei confronti di chi si dimostra adatto alla vita. Leggiamo una poesia degli Ossi di seppia di Montale, anzi la poesia introduttiva di quella raccolta:

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.


Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!


Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.


2)   Montale enuncia qui i principi della sua poetica: dichiara di non avere parole forti e chiare (splendenti come un croco / perduto in mezzo a un polveroso prato) che possano comunicare certezze, trasmettere valori, proporre, in positivo, ideali; al contrario, egli può soltanto pronunciare qualche storta sillaba e secca come un ramo e limitarsi a constatare, in negativo, che siamo costretti ad una condizione di inautenticità (e insoddisfazione), che la vita che viviamo è vuota e falsa, ci è estranea, non è quella che vorremmo (Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo).

3)   La strofa centrale esprime contemporaneamente, con grande ambiguità, il desiderio e la deprecazione (tale mi sembra il doppio valore dell’esclamativo iniziale) di un atteggiamento esistenziale diverso, quello dell’uomo che se ne va sicuro perché non avverte, e quindi non patisce, il vuoto e il falso della propria condizione. È un uomo felice, e quindi invidiabile, perché non si guarda vivere, ma vive con immediatezza, è in sintonia con la realtà; ma, proprio perciò, è anche un uomo mediocre, e quindi da commiserarsi, perché incapace di riflettere sul senso del proprio esistere e del proprio rapporto col mondo; proprio perché vive aderendo pienamente alla realtà, al suo sguardo manca la distanza necessaria per vedere e comprendere; l’altra faccia della sua felice immediatezza è appunto questa mancanza di distacco critico, ovvero l’incapacità di guardare dall’esterno, anche solo per un momento, se stesso e la totalità. Ma certo, nel momento in cui si guardasse dall’esterno, si sarebbe già sdoppiato e il dubbio comincerebbe a corrodere le sue sicurezze, prima fra tutte quella sulla compattezza e la unicità del suo stesso io. Proprio questo indica la bella immagine di colui che l’ombra sua non cura che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro: non prestare attenzione ad un evento usuale, e naturalissimo, quale la proiezione della propria ombra su un muro sgretolato dal sole, è quanto di più normale ci si possa aspettare; ridicolo, fino al patologico, appare invece l’atteggiamento contrario. Ma quell’uomo ridicolo e malato, nel quale il poeta si rispecchia, è l’uomo che non rinuncia all’intelligenza critica, e paga alla volontà di comprensione il prezzo dello sdoppiamento. Costui, di fronte alla propria ombra, si ferma stupefatto: su quello scalcinato muro non vede un’insignificante macchia scura, ma riconosce se stesso fuori di sé: vede se stesso che vive, ed è una vista indimenticabile. Da quel momento, accanto a un io che vive c’è un io che si interroga sul senso di quel vivere, e per ciò stesso rallenta, fino a paralizzarli, i movimenti della vita: lo sguardo su se stesso, denso di interrogativi ormai ineludibili, è uno sguardo che pietrifica come quello della Medusa. La vita, immediata e irriflessa, non è più possibile, ogni solida certezza si dissolve; resta un uomo perplesso e dolente, che non si riconosce nella normalità dominante, e da questa non è riconosciuto; è un uomo che non può essere agli altri ed a se stesso amico”, perché fra lui e gli altri c’è una diversità che non consente amicizia, così come non c’è più pace fra lui e se stesso. È un uomo goffo nei rapporti con le persone, impacciato nei comportamenti, ormai incapace di compiere le più semplici azioni della quotidianità: è un inetto.

4)   C’è una sezione di Ossi di seppia che si intitola Mediterraneo, in cui il mare, il Mediterraneo appunto, è al centro della immaginazione poetica di Montale. Il mare, con il suo ondeggiare, con la naturalità totale del suo essere, diventa il corrispettivo (tecnicamente, il “correlativo oggettivo”) di una dimensione autentica, di ciò che il poeta vorrebbe essere, di ciò in cui il poeta vorrebbe perdersi per porre fine alla disarmonia, per vivere con lo stesso ritmo della natura; ma è un’aspirazione che fallisce, il pensiero che riflette (che fa sì che non si viva, ma ci si guardi vivere) cerca e trova “il male che tarla il mondo”, vede ad uno ad uno gli eventi, gli accadimenti, e la loro insignificanza, rendendo impossibile l’adesione alla naturalità della vita del mare. Per chi è così non c’è salvezza se non nella cultura (altri libri occorrevano a me), il “canto” del mare può essere di conforto in qualche momento doloroso, ma il suo “delirio” appartiene ormai, per il poeta, ad un’altra dimensione, “astrale”, non terrena.

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace - uomo che tarda
all'atto, che nessuno, poi, distrugge.
Volli cercare il male
che tarla il mondo, la piccola stortura
d'una leva che arresta
l'ordegno universale; e tutti vidi
gli eventi del minuto
come pronti a disgiungersi in un crollo.
Seguìto il solco d'un sentiero m'ebbi
l'opposto in cuore, col suo invito; e forse
m'occorreva il coltello che recide,
la mente che decide e si determina.
Altri libri occorrevano
a me, non la tua pagina rombante.
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.

5)   Ma l’inettitudine di cui parliamo a proposito di Montale, o meglio, quel senso di totale disarmonia con la realtà che mi circondava”, come dice lui stesso, ha una sua specificità. Se leggiamo le sue poesie, capiamo che la disarmonia non è altro che la sensazione di vivere in un mondo falso e ingannevole; come se la realtà, gli oggetti della quotidianità fossero solo oggetti illusori, dietro cui si intravede, ma sempre sfuggente, una verità più profonda. In questo mondo che sente falso e ingannevole il poeta è un disadattato, un inetto, ma a lui sono concessi momenti privilegiati, occasioni miracolose, in cui il velo che ci impedisce la vista sembra squarciarsi, la rete che ci avviluppa e ci imprigiona sembra spezzarsi e per un attimo ci troviamo nel mezzo della verità: sentite questi versi, tratti da I limoni:

Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest'odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l'odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l'anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d'oro della solarità

Pirandello: l’ombra come segno dello sdoppiamento

6)      Abbiamo visto come in Montale il “curarsi” della propria ombra, sia segno di una più alta umanità, che può appartenere solo a chi ha acquisito la consapevolezza del proprio sdoppiamento; o a chi, per dirla con Svevo, “ha lo spazio nel proprio cervello per contenere due concezioni della vita”, e perciò si differenzia – doloroso privilegio – in natura dall’animale, in società dall’“uomo che se ne va sicuro”. Ma il motivo dell’ombra come manifestazione concreta (o “correlativo oggettivo”) dello sdoppiamento, ci rimanda ad un altro significativo autore del Novecento, a Pirandello, che del resto ha fatto della crisi d’identità, e della connessa perdita delle certezze, il tema centrale della sua produzione. Si pensi alla condizione patita da Mattia Pascal, il protagonista del più famoso dei romanzi pirandelliani. Costui non solo è sdoppiato per definizione, in quanto titolare di una doppia identità (Mattia Pascal / Adriano Meis), ma emblematicamente si ritrova, a un certo punto della storia, proprio a combattere con la sua stessa ombra (cap. xv, Io e l’ombra mia). Frustrato nella sua aspirazione a vivere pienamente la vita (si accorge di essere stato derubato, ma non può denunciare il ladro, per la stessa ragione per cui non può legalizzare il suo amore: non ha identità anagrafica) esce di casa e passeggia per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente come se fosse un’entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare, ma da cui non riesce a separarsi (“se mi metto a correre, mi seguirà”):

Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.

Chi era più ombra di noi due? io o lei?

Due ombre!

Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l'ombra, zitta.

L'ombra d’un morto: ecco la mia vita...

Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro.

Là, così! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, sì: alza un’anca! alza un’anca!

Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai  piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.

“E se mi metto a correre,” pensai, “mi seguirà!”

Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.

Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa. Proprio così!

Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.

7)      Del resto Pirandello, in un passo del suo saggio su L’umorismo, descrive la condizione dei propri personaggi in termini che ricordano le caratteristiche dell’inetto sveviano:

Nella sua anormalità, non può esser che amaramente comica la condizione d’un uomo che si trova ad esser sempre quasi fuori di chiave, ad essere a un tempo violino e contrabbasso, d’un uomo a cui un pensiero non può nascere, che subito non gliene nasca un altro opposto, contrario; a cui per una ragione ch’egli abbia di dir , subito un’altra e due e tre non ne sorgano che lo costringono a dir no; e tra il sì e il no lo tengan sospeso, perplesso, per tutta la vita; d’un uomo che non può abbandonarsi a un sentimento, senza avvertir subito qualcosa dentro che gli fa una smorfia e lo turba e lo sconcerta e lo indispettisce. (…)

È una speciale fisionomia psichica, a cui è assolutamente arbitrario attribuire una causa determinante; può esser frutto d’una esperienza amara della vita e degli uomini, d’una esperienza che se, da un canto, non permette più al sentimento ingenuo di metter le ali e di levarsi come un’allodola perché lanci un trillo nel sole, senza ch’essa la trattenga per la coda nell’atto di spiccare il volo, dall’altro induce a riflettere che la tristizia degli uomini si deve spesso alla tristezza della vita, ai mali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possono sopportare (…)



Chamisso: l’ombra è l’anima

8)      L’ombra è dunque l’emblema visibile della scissione dell’io, ma è anche il corrispettivo dell’anima. Chi se ne avvede (chi si cura della propria ombra), ha perso l’immediatezza che la vita richiede, è spezzato fra un io che vive e un io che riflette su quel vivere, è dunque irrimediabilmente inibito alla vita. Ma chi non se ne avvede (chi non si cura della propria ombra, o, che è lo stesso, chi per una “storia straordinaria” l’avesse persa), ha perso l‘anima. È appunto questo il senso che si ricava da quel racconto di Chamisso (Storia straordinaria di Peter Schlemihl), vero e proprio archetipo letterario costruito sul motivo, fantastico e inquietante, della perdita dell’ombra: troppo tardi lo sventurato Peter si rende conto che, cedendo al diavolo la propria ombra in cambio di ricchezza e successo, si è privato della propria umanità (la mancanza dell’ombra è una deformità che lo esclude dal consorzio umano); e troppo tardi riconosce l’equivalenza dell’ombra con l’anima, visto che solo in cambio dell’anima il diavolo è disposto a restituirgliela. Il cerchio si chiude. Se l’ombra è l’anima, non accorgersi della propria ombra “che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro” vuol dire non accorgersi della propria anima. E non ci si accorge della propria anima perché la si è persa, adattandosi alla realtà. Chi l’ha persa, “se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico”. Ma perdere l’anima significa perdere ciò che le è più proprio, cioè, come avvertiva Leopardi, “soprabbondanza di vita interna”, capacità di “ponderare seco medesimi”, “vivacità di immaginazione”. E solo chi conserva tutto ciò, conserva integra, pur a prezzo del “malcontento” e dell’inettitudine, la propria umanità.





[1] E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, Milano 1996, p. 1592.

giovedì 9 aprile 2015

Elogio dell'inettitudine (IV parte)


IV. Pirandello: il doppio

Dunque, “curarsi” della propria ombra, è segno di una più alta umanità, che può appartenere solo a chi ha acquisito la consapevolezza del proprio sdoppiamento; o a chi, per dirla con Svevo, “ha lo spazio nel proprio cervello per contenere due concezioni della vita”, e perciò si differenzia – doloroso privilegio – in natura dall’animale, in società dall’“uomo che se ne va sicuro”.

Ma il motivo dell’ombra come manifestazione concreta (o “correlativo oggettivo”) dello sdoppiamento, ci rimanda ad un altro significativo autore del Novecento, a Pirandello, che del resto ha fatto della crisi d’identità, e della connessa perdita delle certezze, il tema centrale della sua produzione. Si pensi alla condizione patita da Mattia Pascal, il protagonista del più famoso dei romanzi pirandelliani. Costui non solo è sdoppiato per definizione, in quanto titolare di una doppia identità (Mattia Pascal / Adriano Meis), ma emblematicamente si ritrova, a un certo punto della storia, proprio a combattere con la sua stessa ombra (cap. xv, Io e l’ombra mia). Frustrato nella sua aspirazione a vivere pienamente la vita (si accorge di essere stato derubato, ma non può denunciare il ladro, per la stessa ragione per cui non può legalizzare il suo amore: non ha identità anagrafica) esce di casa e passeggia per Roma. Alla vista della propria ombra, comincia a parlarle rabbiosamente come se fosse un’entità reale, un altro se stesso che vorrebbe annientare, ma da cui non riesce a separarsi (“se mi metto a correre, mi seguirà”):

Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a far lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affisarono su l'ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.
Chi era più ombra di noi due? io o lei?
Due ombre!
Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l'ombra, zitta.
L'ombra d’un morto: ecco la mia vita...
Passò un carro: rimasi lì fermo, apposta: prima il cavallo, con le quattro zampe, poi le ruote del carro.
Là, così! forte, sul collo! Oh, oh, anche tu, cagnolino? Sù, da bravo, sì: alza un’anca! alza un’anca!
Scoppiai a ridere d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai  piedi. Mi voltai; ma ecco; la avevo dietro, ora.
“E se mi metto a correre,” pensai, “mi seguirà!”
Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma sì! così era! il simbolo, lo spettro della mia vita era quell'ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercé dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.
Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra, e non l’ombra d’una testa. Proprio così!
Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai.[1]

L’ombra è dunque l’emblema visibile della scissione dell’io, ma è anche il corrispettivo dell’anima. Chi se ne avvede (chi si cura della propria ombra), ha perso l’immediatezza che la vita richiede, è spezzato fra un io che vive e un io che riflette su quel vivere, è dunque irrimediabilmente inibito alla vita. Ma chi non se ne avvede (chi non si cura della propria ombra, o, che è lo stesso, chi per una “storia straordinaria” l’avesse persa), ha perso l‘anima. È appunto questo il senso che si ricava da quel racconto di Chamisso (Storia straordinaria di Peter Schlemihl), vero e proprio archetipo letterario costruito sul motivo, fantastico e inquietante, della perdita dell’ombra: troppo tardi lo sventurato Peter si rende conto che, cedendo al diavolo la propria ombra in cambio di ricchezza e successo, si è privato della propria umanità (la mancanza dell’ombra è una deformità che lo esclude dal consorzio umano); e troppo tardi riconosce l’equivalenza dell’ombra con l’anima, visto che solo in cambio dell’anima il diavolo è disposto a restituirgliela.

Il cerchio si chiude. Se l’ombra è l’anima, non accorgersi della propria ombra “che la canicola / stampa sopra uno scalcinato muro” vuol dire non accorgersi della propria anima. E non ci si accorge della propria anima perché la si è persa, adattandosi alla realtà. Chi l’ha persa, “se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico”. Ma perdere l’anima significa perdere ciò che le è più proprio, cioè, come avvertiva Leopardi, “soprabbondanza di vita interna”, capacità di “ponderare seco medesimi”, “vivacità di immaginazione”. E solo chi conserva tutto ciò, conserva integra, pur a prezzo del “malcontento” e dell’inettitudine, la propria umanità.

 

 



[1] L. Pirandello, Tutti i romanzi, vol. I, Milano 1990, pp. 523-4.

Elogio dell'inettitudine (I parte)


Marcello Tartaglia
Elogio dell’inettitudine
Leopardi, Svevo, Montale, Pirandello

Con il titolo del suo primo romanzo – Un inetto, poi cambiato, come noto, per volontà dell’editore, in Una vita – Svevo indicava una condizione esistenziale che, a ben guardare, si rivela una efficace chiave interpretativa di tanta letteratura del Novecento, e non solo italiano. Svevo lo nomina alla fine dell’Ottocento (Una vita è del 1892), ma la figura dell’inetto attraversa, in maniera davvero caratterizzante, tutto il secolo successivo e sta ad indicare, pur nelle diverse forme in cui si presenta, un tipo umano estraneo – appunto, incapace di adattarsi – alla concretezza pragmatica e all’efficienza produttiva della moderna società industriale. Dunque un anti-eroe, i cui precedenti sono senz’altro riconoscibili in certi personaggi del grande romanzo russo dell’Ottocento: in Oblomov, ad esempio, ma anche – e citeremo due autori notoriamente cari a Svevo – nell’“uomo del sottosuolo” di Dostoevskji e nell’“uomo superfluo” di Turgenev. E certo, in questa galleria ideale non può mancare l’albatro che Baudelaire ha cantato in una delle più celebri Fleurs du mal: quel grande uccello marino, re dell’azzurro e principe dei nembi, che, simile al poeta esiliato sulla terra, impacciato dalle sue ali di gigante, appare goffo e ridicolo sulla tolda della nave dove i marinai ne fanno oggetto di scherno, ha connotati che lo rendono dell’inetto sveviano l’antenato più illustre e credibile.

Ma se non è sorprendente incrociare, in questa breve ricognizione, un maestro riconosciuto, quale Baudelaire, del Novecento letterario, più sorprendente sarà, risalendo a ritroso, scoprire che già Leopardi aveva individuato la specificità di quella condizione umana e ne aveva effettuato una diagnosi quanto mai precisa. Più sorprendente, ma solo per chi non sappia riconoscere a quel pensatore poetante la straordinaria capacità di vedere, con largo anticipo di tempo, temi e problemi che diventeranno attuali più di un secolo dopo.

I. Leopardi: l’anima

Nel Dialogo della Natura e di un’Anima Leopardi ribadisce quell’associazione fra grandezza e infelicità, già enunciata nello Zibaldone[1] e rintracciabile in altre Operette morali:[2] quanto più l’individuo è dotato di intelligenza e sensibilità (quanto più si eleva sopra il torpore degli “animali bruti”), tanto più è destinato all’infelicità, giacché più intensamente avverte la distanza incolmabile fra il desiderio del piacere (proprio di ogni uomo) e la miseria della realtà. Ma più interessante, in questa Operetta, è lo sviluppo del ragionamento per cui, dalle suddette premesse, la Natura giunge ad indicare per l’anima grande alcune conseguenze sul piano pratico della vita quotidiana:

Gli animali bruti usano agevolmente ai fini che eglino si propongono ogni loro facoltà e forza. Ma gli uomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impediti ordinariamente dalla ragione e dalla immaginativa; le quali creano mille dubbietà nel deliberare e mille ritegni nell’eseguire. I meno atti e meno usati a ponderare seco medesimi sono i più pronti al risolversi, e nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari, implicate continuamente in loro stesse, e come soverchiate dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotenti di se medesime, soggiaciono il più tempo all’irresoluzione, così deliberando come operando: la quale è uno dei maggiori travagli che affliggano la vita umana. Aggiungi che, mentre per l’eccellenza delle tue disposizioni trapasserai facilmente e in poco tempo quasi tutte le altre della tua specie nelle conoscenze più gravi, e nelle discipline anco difficilissime, nondimeno ti riuscirà sempre impossibile o sommamente malagevole di apprendere o di porre in pratica moltissime cose menome in sé, ma necessarissime al conversare cogli altri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitare perfettamente ed apprendere senza fatica da mille ingegni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo.[3]

Si dice dunque che le qualità umane più alte (tali sono per Leopardi la “ragione” e l’“immaginativa”) sono fonte di dubbi ed esitazioni sia nel decidere che nell’agire (creano mille dubbietà nel deliberare, e mille ritegni nell’eseguire) e quindi condannano l’individuo intelligente e sensibile ad una perpetua irresolutezza, laddove invece prontezza nel decidere e determinazione nell’agire sono proprie degli ingegni mediocri (i meno atti o meno usati a ponderare seco medesimi); e mentre tali ingegni mediocri (anzi, spregevoli in ogni modo) saranno sempre capaci di praticare con naturalezza quei comportamenti che risultano apprezzati in società (nel conversare con gli altri uomini), l’individuo di talento apparirà, al contrario, goffo ed impacciato. Insomma, il privilegio della profondità di pensiero e immaginazione si sconta con l’incapacità di decidere e, su un piano più basso, con la mancanza di disinvoltura nella vita sociale. La riflessione sulla prima di queste conseguenze ritorna con chiarezza in alcune pagine dello Zibaldone:

E’ cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gli uomini di maggior talento sono i più difficili a risolversi tanto al credere quanto all’operare; i più incerti, i più barcollanti, e temporeggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzione: i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi, restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o necessità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere, e la profondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia di risolvere.[4]


 Il secondo motivo, ovvero quello della incapacità “di rendersi nella conversazione tollerabili”, si ritrova anche in un’altra Operetta, nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri, nella quale peraltro sembrano confluire le articolate considerazioni svolte nello Zibaldone a proposito della “invincibile timidità” di Rousseau e di altri come lui: costoro, si dice, a differenza di un’altra categoria di persone (cui è riconducibile Alfieri), non è che disprezzino le cose piccole e basse che servono per risultare piacevoli in società, ma, al contrario, vi si dedicano con un eccesso di attenzione; il che

togliendo loro la possibilità della disinvoltura, del riposo d’animo, della facilità, dell’abbandono, della sicurezza, della confidenza in se stessi [...] impedisce a quei rari ingegni di mai, se non imperfettissimamente, di mai, se non con grandissima difficoltà e stento, adoperare ed esercitare le qualità che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano.[5]

Altrove si parla invece di un eccesso di “amor proprio”, riconducibile alla “soprabbondanza della vita interna dell’anima”:

La cagione si è l’eccesso dell’amor proprio, inseparabile dalla soprabbondanza della vita e forza dell’animo; ed insieme la vivacità dell’immaginazione [...] Sì, Rousseau e gli altri tali uomini sensibili e virtuosi e magnanimi, occupati sempre e legati da un’invincibile e irrepugnabile timidità, anzi mauvaise honte ed erubescenza, non furono e non son tali se non per un eccesso di amor proprio e di immaginazione. Altro danno e infelicità somma della soprabbondanza della vita interna dell’anima (oltre i tanti da me altrove notati), della sensibilità, della squisitezza dell’ingegno, della natura riflessiva, immaginosa, ec.[6]

In conclusione:

[...] gli uomini di questa seconda specie, non essendo di volontà punto alieni dal conversare cogli altri [...] dolendosi nel proprio cuore della disistima in cui si veggono essere, e di parere da meno di uomini smisuratamente inferiori a sé d’ingegno e d’animo; non vengono a capo, non ostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di addestrarsi all’uso pratico della vita, né di rendersi nella conversazione tollerabili a sé, non che altrui.[7]



[1] La questione è connessa con la cosiddetta “teoria del piacere”, su cui Leopardi ritorna più volte, ma che elabora in maniera più sistematica nelle riflessioni del 12 febbraio 1821 (Zibaldone, pp. 646-50) e del 2 maggio 1822 (Zibaldone, pp. 2410-14).
[2] Vedi Storia del genere umano, Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, Dialogo di Marcabruno e Farfarello (anche se qui è posta l’equazione vita-infelicità, anziché quella grandezza-infelicità).
[3] G. Leopardi, Dialogo della Natura e di un’Anima, in Tutte le opere di Giacomo Leopardi. Le poesie e le prose, vol. I, Milano 1968 [1940], p. 848.
[4] Zibaldone, pp. 538-39 (21 gennaio 1821); ma si veda anche p. 3040 (26 luglio 1823).
[5] Zibaldone, pp. 3188-89 (18 agosto 1823).
[6] Zibaldone, pp. 4038-39 (3 marzo 1824).
[7] G. Leopardi, Detti memorabili di Filippo Ottonieri, in Tutte le opere, cit., vol. I, p. 942.