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domenica 3 maggio 2015

Polibio e Livio sullo stesso episodio

Polibio e Livio descrivono lo stesso episodio: la conquista di Cartagèna, in Spagna, da parte di Scipione (il futuro Africano), nel 209 a.C.
Si noterà che Livio, pur confermando il saccheggio, del resto normale in tempo di guerra,
1)    ci tiene a far notare che la strage non comincia per ordine di Scipione, ma per iniziativa di una moltitudine di soldati distinta dalla colonna guidata dai capi;
2)    niente dice sull’uso di squartare gli animali per atterrire maggiormente i nemici;
3)    sottolinea che le vittime sono tutte adulte.
 
 
Scipione, quando credette che un numero sufficiente dei suoi fosse entrato nella città, come è costume dei Romani, ne mandò la maggior parte contro i cittadini, con l’ordine di uccidere chiunque incontrassero senza risparmiare alcuno e di non iniziare il bottino prima che egli ne avesse dato il comando. I Romani ricorrono a questa tattica per atterrire gli avversari: quando essi conquistano una città si vedono non solo uomini uccisi, ma cani squartati ed altri animali fatti a pezzi. In quell’occasione gravissima fu la strage, dato il gran numero degli uomini sorpresi nella città. (Polibio, X, 15, 4 e sgg.)
 
Una gran moltitudine varcò allora anche le mura, ma questa si diede a menare strage dappertutto; quella invece che era entrata per la porta, colonna ordinata con i suoi capi, si avanzò nel mezzo della città fino al foro. Come di là Scipione ebbe veduto i nemici fuggire in due direzioni, parte verso il colle volto ad oriente ch’era tenuto da un presidio di cinquecento uomini, parte verso la rocca in cui lo stesso Magone si era rifugiato con quasi tutti gli armati che erano stati scacciati dalle mura, mandò alcuni reparti ad espugnare il colle, e altri guidò egli stesso contro la rocca. E subito, nel primo assalto, il colle fu preso, e Magone, dopo un tentativo di resistenza, quando vide tutto pieno di nemici e vana ogni speranza, si arrese con la rocca e col presidio. Fino al momento della resa della rocca, fu fatta dappertutto una grande strage nella città, senza risparmiare nessun adulto che si incontrava; poi, a un dato segnale, si cessò dall’eccidio; e i vincitori si diedero alla preda, che fu in ogni senso enorme. (Livio, XXVI, 46, 7 e sgg.)

venerdì 1 maggio 2015

Sallustio: la vita e l'opera

Sallustio
 
Nacque presumibilmente nell’86 a.C. ad Amiterno, in Sabina. A Roma, pur essendo homo novus e malgrado qualche disavventura[1], fece carriera politica, probabilmente con l’appoggio di Cesare. Fu al fianco di Cesare nella guerra civile e, dopo Tapso (46 a.C.)[2], ricompensato con l’assegnazione del governatorato della nuova provincia dell’Africa. Tornato a Roma straordinariamente arricchito, fu accusato nel 45/44 a.C. de repetundis e ancora una volta salvato da Cesare. Morto Cesare, si ritirò a vita privata (fra la villa di Tivoli e il sontuoso palazzo di Roma, circondato da giardini, poi famosi come horti Sallustiani), dedicandosi all’attività storiografica. Morì nel 35 a.C.
E’ autore di due monografie (De coniuratione (o Bellum) Catilinae e Bellum Jugurthinum) e di un’opera annalistica di cui ci sono pervenuti solo frammenti (le Historiae: narravano la storia romana dalla morte di Silla, 78 a.C., al 67 a.C.).
Entrambe le monografie sono precedute da proemi in cui l’autore rivendica l’importanza del suo lavoro storiografico (è un’attività che trae energia dall’anima, che è propria dell’uomo, e non dal corpo, che è proprio delle bestie; inoltre consente, al pari dell’attività politica, di raggiungere la gloria ed eternare se stessi) e spiega anche di essersi dedicato alla storiografia in quanto disgustato dalla corruzione della politica.
Il Bellum Catilinae è scritto nel 43 a.C. e rievoca una vicenda accaduta fra il 65 e il 63 a.C.[3]. E’ trascorso appena un ventennio, e dunque, per quanto l’autore tenda a presentarsi come distaccato ed obiettivo, sono fatti troppo recenti per essere valutati senza passioni e pregiudizi. L’intento sembra essere quello di scagionare Cesare dal sospetto di complicità con i congiurati.
Secondo la tradizione greca (il modello è Tucidide) vengono riportati i discorsi attribuiti ai vari personaggi, dei quali vengono descritti caratteri e psicologie. La storia quindi è vista non tanto come il prodotto di contraddizioni interne alla società, quanto come un dramma in cui i personaggi (Catilina, Sempronia, Catone, Cesare, Cicerone) agiscono quasi come attori[4]. Nello specifico, le cause della congiura vengono indicate nella corruzione dello Stato arricchito, in particolare dell’aristocrazia. Negli excursus[5], che intendono indicare le radici del male, ci viene spiegato che, dopo la distruzione di Cartagine, quando è cessato il metus hostilis, avaritia e ambitio, poi luxuria atque avaritia cum superbia, hanno invaso lo Stato.   
Il Bellum Jugurthinum è scritto attorno al 40 a.C. e tratta della guerra combattuta da Roma contro Giugurta, re di Numidia[6], fra il 111 e il 105 a.C.[7]. Anche in questa monografia la vicenda diventa occasione per dimostrare quanto la corruzione avesse invaso lo Stato romano[8]. La guerra si protrae perché il comando è affidato a esponenti della nobilitas corrotti (Calpurnio Bestia, Scauro) o incompetenti (Aulo Albino); si concluderà vittoriosamente quando scenderanno in campo un nobile integro e capace come Metello e infine un homo novus come il popolare Mario (che per altro avrà come questore il giovane Silla).
Lo stile sallustiano si caratterizza per la vistosa patina arcaica (c’è un’abbondanza di arcaismi: desinenza in undus invece che in endus nei gerundivi; in issumus invece che in issimus nei superlativi; desinenza in -e̅re invece che in e̅runt nella terza plurale del perf. ind.; lubido invece di libido; quom invece di cum; ecc.), per la brevitas (prevalenza di paratassi, esaltata dall’asindeto, dall’antitesi, dalle frasi nominali, dagli infiniti descrittivi), per la variatio (contro la simmetria della concinnitas ciceroniana, è ricercata la disarmonia, il cambiamento di costruzione).[9]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


[1] Si diceva che la sua forte ostilità nei confronti di Milone (l’ottimate che aveva ucciso il popolare Clodio) fosse dovuta, più che alla contrapposizione politica, al fatto che Milone l’aveva sorpreso in adulterio con la propria moglie e fatto frustare. Nel 50 fu poi espulso dal senato (e l’anno dopo riammesso) con l’accusa di probrum, ovvero di vita scostumata.
 
[2] E’ la battaglia che segna la sconfitta dei pompeiani in Africa (sconfitta cui fa seguito il suicidio di Catone in Utica).
 
[3] Sconfitto nelle elezioni a console, sia nel 64 che nel 63, Catilina concepisce il colpo di Stato. Si circonda di elementi disperati e disposti a tutto e, quando la congiura comincia ad essere evidente, il senato affida a Cicerone (insieme ad Antonio, è console nel 63) i pieni poteri. Cicerone pronuncia in senato la prima delle quattro orazioni contro Catilina e questi fugge in Etruria, dove il suo complice Manlio sta allestendo un esercito. Altri congiurati, restati a Roma, prendono contatti con gli ambasciatori degli Allobrogi per indurli ad un’alleanza; ma questi, fingendo di essere d’accordo, denunciano il tutto alle autorità. I capi vengono arrestati e messi a morte, dopo che in senato il parere di Catone ha prevalso su quello di Cesare (contrario alla pena di morte). L’esercito consolare (comandato da Antonio) insegue Catilina in Etruria e lo affronta in battaglia a Pistoia. I congiurati e il loro capo cadono sul campo, dopo essersi battuti valorosamente.
 
[4] Si parla infatti di storiografia “prosopografica” o anche “drammatica”.
 
[5] Ce ne sono due, uno dopo la presentazione di Catilina (6-13) e uno al centro, dopo la messa fuori legge di Catilina (36-39).
 
[6] All’incirca l’odierna Algeria.
 
[7] Dopo aver combattuto, nel 133 a. C., nell'esercito romano agli ordini di Scipione l'Emiliano, nella conquista di Numanzia in Spagna, Giugurta succedette, nel 118 a. C., allo zio Micipsa nel regno di Numidia, che divise con i figli dello stesso zio, Iempsale e Aderbale. Ambizioso e violento, prima assassinò Iempsale, poi cacciò dai suoi territori Aderbale, massacrando anche molti mercanti romani che aveva fatto prigionieri nella presa di Cirta (112 a. C.). Varie spedizioni militari organizzate dal Senato romano contro di lui non ebbero successo, e forti furono i sospetti che egli corrompesse col danaro esponenti della nobiltà romana. Nel 107 a. C., il console Mario intraprese una campagna contro di lui. Ridotto allo stremo, Giugurta si rifugiò in Mauretania, presso il suocero Bocco, che però lo tradì consegnandolo a Silla, allora questore di Mario. Fu strangolato nel carcere Tullianum a Roma, dopo aver ornato il trionfo di Mario.
 
[8] Famosa l’invettiva di Giugurta, che si apprestava a lasciare Roma dove era stato convocato dal senato per rendere ragione dei suoi primi atti di forza: “O città venale e destinata presto a perire, se troverai un compratore!”
 
[9] Nel Bellum Catilinae, a proposito di Sempronia: “litteris Graecis et Latinis docta, psallere, saltare elegantius quam necesse est probae, multa alia, quae instrumenta luxuriae sunt” (quel docta regge un ablativo di limitazione, degli infiniti, un accusativo di relazione). Nel Bellum Jugurthinum, il passo iniziale: “Falso queritur de natura sua genus humanum, quod inbecilla atque aevi brevis, forte potius quam virtute regatur. Nam contra reputando neque maius aliud neque praestabilius invenias magisque naturae industriam hominum quam vim aut tempus deesse.” (nel primo periodo il genus humanum è qualificato prima con un aggettivo e poi con un genitivo di qualità, quindi sono in antitesi un avverbio e un ablativo di causa efficiente; nel secondo periodo invenias regge prima un accusativo poi una proposizione infinitiva).

mercoledì 29 aprile 2015

Livio: la vita e l'opera


Livio, ovvero un repubblicano alla corte di Augusto


 

Secondo il Chronicon  di Gerolamo (IV sec. d. C.), nacque a Padova nel 59 a. C. e sempre a Padova morì nel 17 d. C.. A Roma godette dell’amicizia di Augusto (anche se in un libro andato perduto aveva evidentemente esaltato Pompeo - vale a dire, l’ultimo difensore della libertà repubblicana, e delle prerogative del senato - se è vero che il principe lo chiamava affettuosamente “pompeianus [1]). Da Seneca sappiamo che scrisse anche dialoghi filosofici. Dal 27[2] fino alla morte si dedicò alla monumentale opera storica, Ab urbe condita libri (o Annales, o Historiae ): 142 libri[3], dalla venuta di Enea nel Lazio alla morte di Druso in Germania nel 9 a. C.

Di tanta mole, ci restano solo 35 libri[4]: I-X (dalle origini alla terza guerra sannitica, e precisamente al 293 a. C.); XXI-XLV (dagli inizi della seconda guerra punica, nel 219 a. C., alla vittoria di Paolo Emilio nella terza guerra macedonica, nel 167 a. C.). Pochi i frammenti delle parti perdute, i cui argomenti però conosciamo grazie alle perìochae, ovvero a dei sommari (epitomi, riassunti) composti da un ignoto professore del IV sec. d. C. ad uso della scuola.

Lo schema è quello tradizionale della storiografia annalistica (si narra la storia anno per anno, cominciando con il nome dei consoli e dei pretori). Livio non conduce ricerche d’archivio, né propone una discussione delle fonti: per lui la storia non è una disciplina scientifica (come la intendiamo noi moderni), ma opus oratorium, in cui si fa uso degli artifici retorici e ci si propone un insegnamento morale (nella fattispecie, si insegna che la grandezza di Roma è stata raggiunta grazie alla virtus del suo popolo[5]; quella virtus, fondata sul mos maiorum, che ora si rischia di perdere a causa della cupidigia trionfante).

Le fonti sono gli antichi annalisti (Fabio Pittore e Cincio Alimento; o i più tardi Valerio Anziate e Claudio Quadrigario) per la prima decade; Celio Antipatro[6] e Polibio per la terza decade, Polibio per il resto (ovvero per le guerre d’oriente).

Il confronto con Polibio (unica fonte per noi disponibile) è illuminante: laddove il greco era attento alla valutazione delle cause politiche e sociali, distaccato dagli avvenimenti, obiettivo, Livio seleziona i fatti, e li amplifica, alla luce della sua concezione patriottica e provvidenziale della storia[7]. Tale concezione ha per protagonista il popolo romano, quasi popolo eletto, nella prima decade, e poi, via via, prendono corpo i grandi personaggi, quali Scipione l’Africano, nei quali si incarna la virtus  romana.

Racconta le imprese, ma anche i sogni e i prodigi: non perché (così lo spiega in XLIII, 13, 1-2) non sappia, nella smaliziata e scettica età in cui vive, che queste cose sono poco credibili (Non sum nescius ab eadem neglegentia, qua nihil deos portendere vulgo nunc credant, neque nuntiari admodum ulla prodigia in publicum neque in annales referri), ma perché - dice lui stesso - narrando la storia antica, si immerge in quell’atmosfera e ritiene doveroso riferire quei prodigi e quegli eventi soprannaturali in cui credettero gli uomini di allora (Ceterum et mihi vetustas res scribenti nescio quo pacto antiquus fit animus, et quaedam religio tenet, quae illi prudentissimi viri publice suscipienda censuerint, ea pro indignis habere quae in meos annales referam”; e dunque quei sogni e prodigi vanno riportati perché, in quanto agirono sui protagonisti, agirono sulla storia[8].

La concezione provvidenziale lo accomuna a Virgilio (le parole che Romolo, dopo la sua morte, rivolge a Giunio Proculo, ricordano quelle di Anchise ad Enea[9]), ma di questi non condivide la celebrazione della pax Augusti e del principato come acme della fortuna di Roma (anche se, ovviamente l’opera di Augusto è apprezzata, sia perché ha posto fine alle guerre civili, sia perché si propone di restaurare gli antichi valori).

 

 




[1]Ce lo dice Tacito: Pompeium tantis laudibus tulit ut pompeianum eum Augustus appellaret (Annales, IV, 34, 3).
[2]Lo si capisce da un passo della sua opera (I, 19, 3), dove si accenna ad Ottaviano con il nome di Augusto (accordatogli dal senato nel 27).
[3]Probabilmente venivano pubblicati a gruppi di dieci (decadi) o di cinque (pentadi): lo si arguisce dal fatto che ci sono delle prefazioni, all’inizio del VI libro, del XXI e del XXXI.
[4]Si deve pensare che fosse difficile contenere un’opera così grande nelle biblioteche (ce lo attesta Marziale: Livius ingens, quem mea non totum bibliotheca capit, 14, 190-191) e troppo impegnativo ricopiarla.
[5]E dunque, in nome di tale grandezza, è legittimo riportare, le origini leggendarie e divine che il popolo romano si attribuisce (senza accettarle né respingerle, come si dice nel proemio).
[6]Alla fine del II sec. a. C. aveva scritto una monografia sulla seconda guerra punica (di cui ci restano pochi frammenti).
[7]Si può vedere, come esempio, l’episodio della conquista di Cartagéna, in Spagna, da parte di Scipione, il futuro Africano, nel 209: Livio è evidentemente attento ad allontanare dal suo eroe l’accusa di crudeltà (XXVI, 46, 7-10).
[8]Memorabile il racconto della sconfitta del Trasimeno: Flaminio viene sconfitto non per errori tecnici nella conduzione della battaglia (come è per Polibio), ma per empietà verso gli dei, per aver trascurato i riti; e dopo di ciò Fabio Massimo richiamerà il senato alla pietas (XXII, 9, 7-8).
[9]“Abi, nuntia Romanis caelestes ita velle, ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarem colant sciantque et ita posteris tradant nullas opes humanas armis Romanis resistere posse” (I, 16, 7).