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martedì 5 gennaio 2016

Apuleio: dall'Asino d'oro o Metamorfosi


L’incipit  (Metamorfosi I, 1)
 
At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido susurro permulceam -- modo si papyrum Aegyptiam argutia Nilotici calami inscriptam non spreveris inspicere --, figuras fortunasque hominum in alias imagines conversas et in se rursus mutuo nexu refectas ut mireris. Exordior. "Quis ille?" Paucis accipe. Hymettos Attica et Isthmos Ephyrea et Taenaros Spartiatica, glebae felices aeternum libris felicioribus conditae, mea vetus prosapia est; ibi linguam Atthidem primis pueritiae stipendiis merui. Mox in urbe Latia advena studiorum Quiritium indigenam sermonem aerumnabili labore nullo magistro praeeunte aggressus excolui. En ecce praefamur veniam, siquid exotici ac forensis sermonis rudis locutor offendero. Iam haec equidem ipsa vocis immutatio desultoriae scientiae stilo quem accessimus respondet. Fabulam Graecanicam incipimus. Lector intende: laetaberis.
 
Traduzione
 
Eccomi a raccontarti, o lettore, storie d'ogni genere, sul tipo di quelle milesie e a stuzzicarti le orecchie con ammiccanti parole, solo che tu vorrai posare lo sguardo su queste pagine scritte con un'arguzia tutta alessandrina. E avrai di che sbalordire sentendomi dire di uomini che han preso altre fogge e mutato l'essere loro e poi son ritornati di nuovo come erano prima. Dunque, comincio. Certo che tu ti chiederai io chi sia; ebbene te lo dirò in due parole: le regioni dell'Imetto, nell'Attica, l'Istmo di Corinto e il promontorio del Tenaro nei pressi di Sparta sono terre fortunate celebrate in opere più fortunate ancora. Di lì, anticamente, discese la mia famiglia; lì, da fanciullo, appresi i primi rudimenti della lingua attica, poi, emigrato nella città del Lazio, io che ero del tutto digiuno della parlata locale, dovetti impararla senza l'aiuto di alcun maestro, con incredibile fatica. Perciò devi scusarmi se da rozzo parlatore qual sono, mi sfuggirà qualche barbarismo o qualche espressione triviale. Del resto questa varietà del mio linguaggio ben si adatta alle storie bizzarre che ho deciso di raccontarti. Incomincio questa storiella alla greca. Stammi a sentire, lettore, ti divertirai.
 
La novella del fabbro fatto cornuto (Metamorfosi IX, 5-7) (1)
 
5] Is gracili pauperie laborans fabriles operas praebendo parvis illis mercedibus vitam tenebat. Erat ei tamen uxorcula etiam satis quidem tenuis et ipsa, verum tamen postrema lascivia famigerabilis. Sed die quadam, dum matutino ille ad opus susceptum proficiscitur, statim latenter inrepit eius hospitium temerarius adulter. Ac dum Veneris conluctationibus securius operantur, maritus ignarus rerum ac nihil etiam tum tale suspicans inprovisus hospitium repetit. Iam clausis et obseratis foribus uxoris laudata continentia ianuam pulsat, sibilo etiam praesentiam suam denuntiante. Tunc mulier callida et ad huius modi flagitia perastutula tenacissimis amplexibus expeditum hominem dolio, quod erat in angulo semiobrutum, sed alias vacuum, dissimulanter abscondit, et patefactis aedibus adhuc introeuntem maritum aspero sermone accipit: "Sinice vacuus et otiosus insinuatis manibus ambulabis mihi nec obito consueto labore vitae nostrae prospicies et aliquid cibatui parabis? At ego misera pernox et perdia lanificio nervos meos contorqueo, ut intra cellulam nostram saltem lucerna luceat. Quanto me felicior Daphne vicina, quae mero et prandio matutino saucia cum suis adulteris volutatur!"
[6] Sic confutatus maritus: "Et quid istic est?" ait "Nam licet forensi negotio officinator noster attentus ferias nobis fecerit, tamen hodiernae cenulae nostrae propexi. Vide sis ut dolium, quod semper vacuum, frustra locum detinet tantum et re vera praeter impedimentum conversationis nostrae nihil praestat amplius. Istud ego sex denariis cuidam venditavi, et adest ut dato pretio secum rem suam ferat. Quin itaque praecingeris mihique manum tantisper accommodas, ut exobrutum protinus tradatur emptori.?
E re nata fallaciosa mulier temerarium tollens cachinnum: "Magnum" inquit "istum virum ac strenuum negotiatorem nacta sum, qui rem, quam ego mulier et intra hospitium contenta iam dudum septem denariis vendidi, minoris distraxit."
Additamento pretii laetus maritus: "Et quis est ille" ait "qui tanto praestinavit?" At illa: "Olim, inepte," inquit "descendit in dolium sedulo soliditatem eius probaturus."
[7] Nec ille sermoni mulieris defuit, sed exurgens alacriter: "Vis" inquit "verum scire, mater familias? Hoc tibi dolium nimis vetustum est et multifariam rimis hiantibus quassum" ad maritumque eius dissimulanter conversus: "Quin tu, quicumque es, homuncio, lucernam" ait "actutum mihi expedis, ut erasis intrinsecus sordibus diligenter aptumne usui possim dinoscere, nisi nos putas aes de malo habere?" Nec quicquam moratus ac suspicatus acer et egregius ille maritus accensa lucerna: "Discere," inquit "frater, et otiosus adsiste, donec probe percuratum istud tibi repraesentem"; et cum dicto nudatus ipse delato numine scabiem vetustam cariosae testae occipit exsculpere. At vero adulter bellissimus ille pusio inclinatam dolio pronam uxorem fabri superincurvatus secure dedolabat. Ast illa capite in dolium demisso maritum suum astu meretricio tractabat ludicre; hoc et illud et aliud et rursus aliud purgandum demonstrat digito suo, donec utroque opere perfecto accepit septem denariis calamitosus faber collo suo gerens dolium coactus est ad hospitium adulteri perferre.
 
Traduzione
 
Dunque, quest'uomo che lavorava da fabbro faceva la miseria nera e, con quel che guadagnava, appena appena riusciva a vivere. Anche sua moglie, come lui, non aveva il becco d'un quattrino ma, in compenso, era libidinosa al massimo, e tutti lo sapevano. Un giorno, di buon'ora, appena il marito se ne uscì per andare al lavoro, subito un amante, con estrema sfacciataggine, s'infilò in casa. Ma ecco che mentre i due s'azzuffavano alla bell'e meglio sul letto, l'ignaro marito, senza sospettare di nulla, tornò sui suoi passi e, trovando la porta chiusa e sprangata, fra sé compiacendosi dell'onestà della moglie, picchiò all'uscio e le dette anche un fischio per farsi riconoscere.
La moglie, furba e pratica in imbrogli di questo genere, si staccò dall'uomo che teneva stretto fra le braccia e, come se niente fosse, lo nascose in una botte vuota, seminterrata in un angolo; poi, aperta la porta, aggredì il marito che ancora nemmeno era entrato: «Ah, è così? Ora mi vai anche a spasso, con le mani in tasca, come uno sfaccendato, buono a nulla. Perché non sei andato a lavorare? Alla famiglia non ci pensi, no? Cos'è che mangeremo oggi? E io, disgraziata, che me ne sto notte e giorno a rompermi le braccia filando lana perché in questa stanzetta almeno ci sia accesa la lampada. Guarda Dafne, quella qui vicino invece, com'è più fortunata di me: mangia e beve da prima mattina e si rivoltola ora con uno ora con un altro.»
E il marito, dopo una simile strapazzata: «Ma che ti prende?» le fece. «Il padrone aveva una causa in tribunale e ci ha fatto far festa. Però io ci ho pensato lo stesso alla nostra cenetta. La vedi quella botte?: sempre vuota, occupa tanto spazio per nulla, anzi sempre lì tra i piedi è più un impiccio che altro in casa. Ebbene, l'ho venduta a un tale per sei denari; tra poco sarà qui con i quattrini e se la porterà via. Perciò dammi una mano a tirarla fuori, così gliela consegneremo subito.»
La moglie, pronta anche in una situazione come questa, scoppiò in una risata insolente e: «Ma che grand'uomo che è mio marito; ha proprio il bernoccolo degli affari: mi va a vendere a un prezzo inferiore della roba che io, povera donna, sempre chiusa in casa, ho già venduto per sette denari.»
«E chi te l'ha comprata a così tanto?» fece lui tutto contento di quell'aumento di prezzo.
E lei: «Ah scemo! È già da un po' ch'è lì dentro, per vedere se è sana!»
Dal canto suo l'amante non fu da meno della donna e, spuntando fuori: «Vuoi sapere la verità, buona donna?» le fece. «Questa tua botte è troppo vecchia e sgangherata. Ha certe crepe che paion fessure,» e rivolgendosi come se nulla fosse al marito: «E tu buon uomo, chiunque sia, fammi il favore di darmi una lanterna; voglio toglierci tutto lo sporco per vedere se può ancora servire. Non crederai mica che io li vada a rubare i miei soldi!»
E quell'intelligentone, quella perla rara di marito, tutto premuroso senza sospettare di nulla, acceso il lume: «Tirati su di lì, amico mio, e stattene quieto e comodo. Ci penserò io a farlo e te la mostrerò quand'è pulita.» E così dicendo, toltisi gli abiti, si calò dentro con il lume e cominciò a raschiare tutta la gromma che con il tempo s'era formata in quella vecchia giara.
Dal canto suo l'amante, un pezzo di ragazzo, si lavorava di gusto, dal di dietro, la moglie del fabbro che se ne stava appoggiata e curva sulla giara e che anzi, da vera sgualdrina, sporgendo il capo all'interno, si prendeva gioco del marito dicendogli: «Pulisci qui, c'è ancora sporco lì, e qua e là,» finché portato a termine ciascuno il suo lavoro, e avuti i suoi sette denari, quel disgraziato fabbro fu costretto a caricarsi in spalla la giara e a portarla fino a casa del suo rivale.
 
Psiche vede lo sposo misterioso (Metamorfosi V, 21-23)

[21]    At Psyche relicta sola, nisi quod infestis Furiis agitata sola non est aestu pelagi simile maerendo fluctuat, et quamvis statuto consilio et obstinato animo iam tamen facinori manus admovens adhuc incerta consilii titubat multisque calamitatis suae distrahitur affectibus. Festinat differt, audet trepidat, diffidit irascitur et, quod est ultimum, in eodem corpore odit bestiam, diligit maritum. Vespera tamen iam noctem trahente praecipiti festinatione nefarii sceleris instruit apparatum. Nox aderat et maritus aderat primisque Veneris proeliis velitatus in altum soporem descenderat.   
[22] Tunc Psyche et corporis et animi alioquin infirma fati tamen saevitia subministrante viribus roboratur, et prolata lucerna et adrepta novacula sexum audacia mutatur.
Sed cum primum luminis oblatione tori secreta claruerunt, videt omnium ferarum mitissimam dulcissimamque bestiam, ipsum illum Cupidinem formonsum deum formonse cubantem, cuius aspectu lucernae quoque lumen hilaratum increbruit et acuminis sacrilegi novaculam paenitebat. At vero Psyche tanto aspectu deterrita et impos animi marcido pallore defecta tremensque desedit in imos poplites et ferrum quaerit abscondere, sed in suo pectore; quod profecto fecisset, nisi ferrum timore tanti flagitii manibus temerariis delapsum evolasset. Iamque lassa, salute defecta, dum saepius divini vultus intuetur pulchritudinem, recreatur animi. Videt capitis aurei genialem caesariem ambrosia temulentam, cervices lacteas genasque purpureas pererrantes crinium globos decoriter impeditos, alios antependulos, alios retropendulos, quorum splendore nimio fulgurante iam et ipsum lumen lucernae vacillabat; per umeros volatilis dei pinnae roscidae micanti flore candicant et quamvis alis quiescentibus extimae plumulae tenellae ac delicatae tremule resultantes inquieta lasciviunt; ceterum corpus glabellum atque luculentum et quale peperisse Venerem non paeniteret. Ante lectuli pedes iacebat arcus et pharetra et sagittae, magni dei propitia tela.
[23] Quae dum insatiabili animo Psyche, satis et curiosa, rimatur atque pertrectat et mariti sui miratur arma, depromit unam de pharetra sagittam et punctu pollicis extremam aciem periclitabunda trementis etiam nunc articuli nisu fortiore pupugit altius, ut per summam cutem roraverint parvulae sanguinis rosei guttae. Sic ignara Psyche sponte in Amoris incidit amorem. Tunc magis magisque cupidine fraglans Cupidinis prona in eum efflictim inhians patulis ac petulantibus saviis festinanter ingestis de somni mensura metuebat. Sed dum bono tanto percita saucia mente fluctuat, lucerna illa, sive perfidia pessima sive invidia noxia sive quod tale corpus contingere et quasi basiare et ipsa gestiebat, evomuit de summa luminis sui stillam ferventis olei super umerum dei dexterum. Hem audax et temeraria lucerna et amoris vile ministerium, ipsum ignis totius deum aduris, cum te scilicet amator aliquis, ut diutius cupitis etiam nocte potiretur, primus invenerit. Sic inustus exiluit deus visaque detectae fidei colluvie prorsus ex osculis et manibus infelicissimae coniugis tacitus avolavit.
 
Traduzione
 
Ma Psiche, rimasta sola, anche se sola non era perché tormentata da Furie ostili, si sentiva turbata e sconvolta come un mare in tempesta e benché risoluta e ferma nel suo proposito, benché già sul punto di consumare il misfatto, provava una certa esitazione e nella sua sventura era combattuta da sentimenti diversi. Ora voleva affrettarsi, ora differiva l'azione, voleva osare e aveva paura, disperava e a un tempo ardeva dalla collera, insomma odiava la bestia e amava il marito che erano un essere solo. Tuttavia mentre scendevano le prime ombre della sera, trepidante e in gran fretta ella dispose ogni cosa per il delitto (2). 'Venne la notte e giunse anche lo sposo che, dopo avere combattuto le battaglie di Venere, cadde in un sonno profondo.
Allora a Psiche vennero meno le forze e l'animo; ma a sostenerla, a ridarle vigore fu il suo stesso implacabile destino: andò a prendere la lucerna, afferrò il rasoio e sentì che il coraggio aveva trasformato la sua natura di donna. Ma non appena il lume rischiarò l'intimità del letto nuziale, agli occhi di lei apparve la più dolce e la più mite di tutte le fiere, Cupido in carne e ossa, il bellissimo iddio, che soavemente dormiva e dinanzi al quale la stessa luce della lampada brillò più viva e la lama del sacrilego rasoio dette un barbaglio di luce. A quella visione Psiche, impaurita, fuori di sé sbiancata in viso e tremante, sentì le ginocchia piegarsi e fece per nascondere la lama nel proprio petto, e l'avrebbe certamente fatto se l'arma stessa, quasi inorridendo di un così grave misfatto, sfuggendo a quelle mani temerarie, non fosse andata a cadere lontano. Eppure, benché spossata e priva di sentimento, a contemplare la meraviglia di quel volto divino, ella sentì rianimarsi. Vide la testa bionda e la bella chioma stillante ambrosia e il candido collo e le rosee guance, i bei riccioli sparsi sul petto e sulle spalle, al cui abbagliante splendore il lume stesso della lucerna impallidiva; sulle spalle dell'alato iddio il candore smagliante delle penne umide di rugiada e benché l'ali fossero immote, le ultime piume, le più leggere e morbide, vibravano irrequiete come percorse da un palpito. Tutto il resto del corpo era così liscio e lucente, così bello che Venere non poteva davvero pentirsi d'averlo generato. Ai piedi del letto erano l'arco, la faretra e le frecce, le armi benigne di così grande dio.
Psiche non la smetteva più di guardare le armi dello sposo: con insaziabile curiosità le toccava, le ammirava, tolse perfino una freccia dalla faretra per provarne sul pollice l'acutezza ma per la pressione un po' troppo brusca della mano tremante la punta penetrò in profondità e piccole gocce di roseo sangue apparvero a fior di pelle. Fu così che l'innocente Psiche, senza accorgersene, s'innamorò di Amore. E subito arse di desiderio per lui e gli si abbandonò sopra e con le labbra schiuse per il piacere, di furia, temendo che si destasse, cominciò a baciarlo tutto con baci lunghi e lascivi. Ma mentre l'anima sua innamorata s'abbandonava a quel piacere, la lucerna maligna e invidiosa, quasi volesse toccare e baciare anch'essa quel corpo così bello, lasciò cadere dall'orlo del lucignolo sulla spalla destra del dio una goccia d'olio ardente. Ohimè audace e temeraria lucerna indegna intermediaria d'amore, proprio il dio d'ogni fuoco tu osasti bruciare, quando fu certo un amante ad inventarti per godersi più a lungo, anche di notte, il suo desiderio. Balzò su il dio sentendosi scottare e vedendo oltraggiata e tradita la sua fiducia, senza dire parola, d'un volo si sottrasse ai baci e alle carezze dell'infelicissima sposa.
 
Il sacerdote spiega a Lucio il senso della sua vicenda (Metamorfosi, XI, 15)
 
"Multis et variis exanclatis laboribus magnisque Fortunae tempestatibus et maximis actus procellis ad portum Quietis et aram Misericordiae tandem, Luci, venisti. Nec tibi natales ac ne dignitas quidem, vel ipsa, qua flores, usquam doctrina profuit, sed lubrico virentis aetatulae ad serviles delapsus voluptates curiositatis inprosperae sinistrum praemium reportasti. Sed utcumque Fortunae caecitas, dum te pessimis periculis discruciat, ad religiosam istam beatitudinem inprovida produxit malitia. Eat nunc et summo furore saeviat et crudelitati suae materiem quaerat aliam; nam in eos, quorum sibi vitas servitium deae nostrae maiestas vindicavit, non habet locum casus infestus. Quid latrones, quid ferae, quid servitium, quid asperrimorum itinerum ambages reciprocae, quid metus mortis cotidianae nefariae Fortunae profuit? In tutelam iam receptus es Fortunae, sed videntis, quae suae lucis splendore ceteros etiam deos illuminat. Sume iam vultum laetiorem candido isto habitu tuo congruentem, comitare pompam deae sospitatricis inovanti gradu. Videant inreligiosi, videant et errorem suum recognoscant: en ecce pristinis aerumnis absolutus Isidis magnae providentia gaudens Lucius de sua Fortuna triumphat. Quo tamen tutior sis atque munitior, da nomen sanctae huic militiae, cuius non olim sacramento etiam rogabaris, teque iam nunc obsequio religionis nostrae dedica et ministerii iugum subi voluntarium. Nam cum coeperis deae servire, tunc magis senties fructum tuae libertatis."
 
Traduzione
 
«O Lucio, dopo tante e così varie tribolazioni, dopo tutte le prove terribili della Fortuna, sospinto dalle più tremende calamità, sei finalmente giunto al porto della Quiete e all'altare della Misericordia. La nobiltà dei natali, i tuoi meriti personali, la cultura che hai non ti hanno giovato a nulla; ma giovane com'eri e intemperante, ti sei lasciato andare su una strada sdrucciolevole dietro passioni non degne e con la tua maledetta curiosità hai ottenuto proprio un bel risultato. Comunque la Fortuna che è cieca, mentre ti tormentava con i mali peggiori, non si accorgeva, nella sua malignità, che ti stava conducendo alla beatitudine di questa religione. Se ne vada ora a infuriare altrove, cerchi altrove qualcuno su cui sfogare la sua crudeltà, dal momento che nulla di male può più accadere a coloro che hanno consacrato la vita al servizio della maestà della nostra dea. Briganti, bestie feroci, schiavitù, tutta la fatica di andar su e giù per strade impraticabili, ogni giorno la paura della morte, quanto hanno giovato alla malvagia Fortuna? Ora sì che tu sei sotto la protezione della Fortuna, ma di quella che tutto vede, di quella che con lo splendore della sua luce illumina anche gli altri dei. Sia lieto, dunque, il tuo volto, come si conviene, ora che indossi questa candida veste e con passo trionfante accompagna la processione della dea salvatrice. Che gli increduli vedano, vedano e riconoscano il loro errore: eccolo, libero da tutti gli antichi affanni, felice della protezione della grande Iside, Lucio trionfa sulla sua cattiva Fortuna. Ma perché tu sia più sicuro e più protetto iscriviti a questa santa milizia cui anche poco fa sei stato chiamato a votarti e d'ora innanzi dedicati al culto della nostra religione e assoggettati volontariamente al giogo del suo ministero. Infatti quando incomincerai a servire la dea allora veramente sentirai il frutto della tua liberazione.»
 
(1) La novella è stata ripresa da Boccaccio (Decameron, 7a giornata, novella 2°).
 
(2) Psiche è stata convinta dalle malvage sorelle ad uccidere lo sposo, da quelle descritto come un drago micidiale.

mercoledì 17 giugno 2015

Apuleio: la vita e l'opera


Apuleio



Abbiamo poche notizie (dalla sua stessa opera) su di lui. Nacque nella provincia di Africa, a Madaura (o Madauro, nell’odierna Algeria). La data di nascita (attorno al 125 d. C.) la deduciamo da quella del processo per magia (1). Studiò a Cartagine e poi ad Atene, viaggiò molto (fu quasi sicuramente anche a Roma), fu iniziato a numerosi riti misterici. Da adulto si dedicò soprattutto all’attività di conferenziere, dando prova della sua eloquenza epidittica (è un’epoca – detta anche della seconda sofistica – in cui è apprezzata l’abilità oratoria, non quella impegnata nella contesa politica o giudiziaria, ma quella che si manifesta in commemorazioni, omaggi, conferenze). Di tale attività ci resta come documento un’antologia intitolata Florĭda (una raccolta di estratti dei suoi discorsi, di argomento vario, accomunati da uno straordinario – e nauseante – virtuosismo oratorio; intera ci è giunta la conferenza intitolata De deo Socratis, in cui, partendo dal demone da cui Socrate diceva di essere ammonito, si svolge un vero e proprio trattato sulla natura dei demoni; questa opera, insieme ad altre due di tipo filosofico – il De mundo e il De Platone et eius dogmate – sono alla base della fama di filosofo platonico attribuita ad Apuleio). La morte va collocata fra il 170 e il 190 (2)..

I suoi capolavori sono il De magia (nota anche come Apologia) e le Metamorfosi (note anche come l’Asino d’oro).

Il primo non è altro che l’orazione di autodifesa pronunciata (poi evidentemente rielaborata, per la pubblicazione) a Sàbrata, in Tripolitania, davanti al proconsole Claudio Massimo, nel processo in cui era accusato di avere sedotto la vedova Pudentilla con un filtro magico (a Tripoli, allora Oea, un vecchio compagno di studi, Ponziano, gli aveva proposto di sposare la propria madre, vedova da quattordici anni, per impedire che l’eredità paterna finisse nelle mani di qualche avventuriero; Apuleio, dopo qualche esitazione, accettò, ma di lì a poco Ponziano morì e un cognato di Pudentilla, che avrebbe voluto sposarla, induce l’altro figlio della donna, Pudente, ad intentare causa per magia al neo-patrigno). E’ un testo straordinario, in cui si mescolano grande cultura letteraria, scientifica e filosofica (Apuleio ci tiene a mostrarsi, davanti al giudice, di un altro livello rispetto ai suoi accusatori, ignoranti e meschini) e abilità nel ridicolizzare le tesi degli avversari (in tal senso diventa anche un documento delle superstizioni dell’epoca: ad esempio, viene accusato di aver confezionato della pasta dentifricia e di tenere in casa uno specchio e lui si difende ora con una lezione sulla igiene della bocca e ricordando il riprovevole uso dell’orina citato da Catullo, ora sostenendo che gli specchi si usano non per incantesimi, ma per contemplare la propria persona). Ma il colpo decisivo lo serba al finale, dove dimostra che per sé ha avuto poco o niente e che il vero erede è il figliastro (Pudente). L’esito non lo sappiamo, ma l’assoluzione è certa, visto che negli anni successivi lo ritroviamo attivo come conferenziere.  

Il capolavoro narrativo è Metamorphosĕon libri XI (per la prima volta da Agostino chiamato Asinus aureus, forse per l’intelligenza umana dell’asino protagonista, forse per le qualità “auree” dello stile). La trama presenta notevoli somiglianze con un’opera attribuita a Luciano di Samòsata (scrittore greco contemporaneo di Apuleio), Lucio o l’asino (ma questa è molto più breve e schematica, mentre quella di Apuleio è curatissima ed arricchita da una serie di narrazioni secondarie); inoltre Fozio, patriarca di Costantinopoli nel IX sec., ci dice che l’opera di Luciano derivava da un racconto di Lucio di Patre, oggi Patrasso, che però è andato perduto; quel racconto era forse il modello sia per lo Pseudoluciano sia per Apuleio – che forse per questa ragione nel proemio chiama fabula Graecanica la storia che si accinge a raccontare). Il genere ha a che fare con le fabulae Milesiae (3) ma non si risolve in esse. Infatti, se è vero che c’è un’intenzione di divertire il lettore tramite racconti di argomento erotico (4), com’era proprio della Milesiae, sono anche evidenti gli aspetti allegorico-mistici, e dunque l’intento edificante, che si chiarisce nell’ultimo libro: la vicenda della trasformazione in asino (animale simbolo di ignoranza e sensualità) e del recupero della forma umana dopo il superamento di una serie di prove, allude ad un percorso iniziatico che conduce dalla perdizione alla salvezza grazie alla benevolenza divina; e tale significato è ripreso nella novella centrale di Amore e Psiche (5) (che dunque diventa una sorta di chiave interpretativa del romanzo: sia per Lucio che per Psiche la curiositas – rispettivamente, di conoscere le arti magiche e di vedere l’amante – è ciò che determina la perdita della condizione felice; quindi per entrambi seguono peripezie e sofferenze che hanno termine grazie all’azione salvifica della divinità). Ed è altrettanto evidente che Apuleio allude ad un proprio percorso, quando nel finale al sacerdote di Osiride appare il dio in persona e gli dice che il giorno dopo si presenterà un Madaurensis per essere iniziato ai sacri misteri (6).

Si possono distinguere tre sezioni narrative: la prima (I-III), dominata dai temi della curiositas e della magia, contiene le vicende di Lucio fino alla sua trasformazione in asino; la seconda (IV-X) narra delle peripezie di Lucio-asino e contiene il maggior numero di inserzioni novellistiche (fra cui la favola di Amore e Psiche); la terza (XI) narra del recupero della forma umana da parte di Lucio e della sua iniziazione ai culti di Iside e di Osiride.

Originale è l’impasto stilistico: arcaismi si intrecciano con raffinate figure retoriche (grande rilievo assumono sia le figure di suono – come anafore, allitterazioni, omoteleuti, rime, assonanze – sia le cluasole), con neologismi, con volgarismi.

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1) Il processo si celebra nel 158/59 e si dice che la vedova Pudentilla aveva oltrepassato i quarant’anni mentre lui era molto più giovane; dunque, se lei era nata attorno al 115, a lui si possono attribuire dieci anni di meno.

2) Negli stralci delle sue conferenze ci sono accenni ad eventi degli anni fra il 162 e il 169.

3) E’ lo stesso autore nel proemio a farvi riferimento: At ego tibi sermone isto Milesio varias fabulas conseram auresque tuas benivolas lepido sussurro permulceam.

4) Nel proemio si dice: lector intende, laetaberis.

5) La racconta una vecchia, nel rifugio dei briganti, per consolare una fanciulla rapita. Psiche è bellissima e suscita la gelosia di Venere, ma Amore, figlio di Venere, se ne innamora e,  per mezzo di Zefiro, la trasporta in un castello incantato. Qui è trattata come una regina da ancelle invisibili, ma Amore la visita solo di notte, senza mai lasciarsi vedere. Per consolare la sua solitudine, Psiche ottiene di far venire in visita al castello le sue due sorelle, le quali però, mosse da invidia, la esortano a guardare il suo amante notturno. Così fa Psiche, violando la proibizione, ma fa appena in tempo a vedere Amore e ad innamorarsene perdutamente che dalla lampada, con cui lo sta osservando mentre dorme. cade un goccia d’olio bollente che lo sveglia. Amore fugge via e Psiche lo cerca invano. Venere la costringe a superare delle prove difficilissime, finché Amore si ripresenta e i due convolano felicemente a nozze. Dal loro matrimonio nascerà una fanciulla che avrà nome Voluptas.

6) E’ questa la cosiddetta sphragìs, ovvero la firma o sigillo dell’autore.