venerdì 16 marzo 2018

Ulisse in Leopardi e Manzoni


Leopardi e Manzoni


12) Per restare ai grandi dell’Ottocento, è interessante il pensiero di Leopardi. Leopardi, pur essendo affascinato da Cristoforo Colombo (e Colombo era stato indicato da Tasso, nella Liberata, come colui che aveva portato a compimento l’impresa di Ulisse), non amava l’Ulisse omerico, lo riteneva non “amabile”, anzi, per certi versi “odioso”, non amava le sue qualità, la “saviezza” e la “pazienza”; diceva di lui nello Zibaldone (p. 3602):

Or dunque volgendoci a' poemi epici veggiamo nell'Odissea che Ulisse, molto stimabile, in molte parti ammirabile e straordinario, in nessuna amabile, benchè sventurato per quasi tutto il poema, niente interessa. Ei non è giovane, anzi n'è ben lontano, benchè Omero si sforza di farlo apparire ancor giovane e bello per grazia speciale degli Dei, di Minerva ec. o per una meraviglia (che niente ci persuade perchè inverisimile), piuttosto che per natura, anzi contro natura. Ma il lettore segue la natura, malgrado del poeta e Ulisse non gli pare nè giovane nè bello. Le qualità nelle quali Ulisse eccede, sono in gran parte altrettanto forse odiose quanto stimabili. La pazienza non è odiosa, ma tanto è lungi da essere amabile, che anzi l'impazienza si è amabile….(e poi in nota) La pazienza è di tutte le virtù forse la più odiosa o la meno amabile, e ciò massimamente doveva essere presso gli antichi, e presso noi ancora, quando la consideriamo in personaggi e circostanze antiche, come in Ulisse.

E nei Pensieri (LXXIV):

Achille è perfettamente amabile; laddove la bontà di Enea e di Goffredo, e la saviezza di questi medesimi e di Ulisse, generano quasi odio.


13) Quanto a Manzoni, il discorso è diverso. Manzoni non nomina Ulisse nella sua opera, ma la vicenda vissuta da Renzo nei Promessi sposi sembra ripetere la struttura dell’Odissea. E’ stato Raimondi a mostrare come, essendo l’Iliade e l’Odissea i due archetipi fondamentali per tutto il romanzo occidentale, i Promessi sposi siano riconducibili al poema di Ulisse: è Renzo che, come succede ad Ulisse, compie un percorso (che è un viaggio lontano dalla “patria”, ricco di peripezie e di ostacoli da superare), al termine del quale tornerà a casa vincitore e con una coscienza superiore (è un cercatore di giustizia, e alla fine apprende che la più alta forma di giustizia risiede nel perdono, come gli ha insegnato fra Cristoforo al lazzaretto). Esemplare l’episodio narrato nel cap. XVI, quando Renzo, in fuga verso l’Adda, si ferma all’osteria di Gorgonzola. Lì giunge anche un mercante che narra agli avventori che lo ascoltano a bocca aperta le grandi vicende (le agitazioni per il pane) che stanno succedendo a Milano; e narra anche di quel caporione venuto da fuori, che era stato arrestato ma che era riuscito a fuggire. Anche Renzo ascolta, ben sapendo che si sta parlando di lui. La situazione ricorda quella di Ulisse, quando, ancora sconosciuto, è ospite presso la reggia di Alcinoo; e lì, in mezzo ai Feaci, ascolta il cantore Demodoco che narra le vicende della guerra di Troia e, fra gli eroi, esalta l’astuto Ulisse, che ha ideato l’inganno del cavallo.  

Ulisse in Foscolo


Foscolo



10) Facciamo un passo indietro, andiamo a Foscolo, autore nel quale ritorna la figura di Ulisse nella sua doppiezza. Tutti ricordiamo A Zacinto di Foscolo. Lì l’eroe greco è definito bello di fama e di sventura. E’ diventato un eroe romantico, cui il poeta si sente simile, e che è reso “bello” dalla “sventura”, dalla sofferenza. Il dolore è un segno di nobiltà, è privilegio di animi non mediocri (“soffri e sii grande!” dice Anfrido ad Adelchi, nella tragedia manzoniana). Di questo privilegio-maledizione Ulisse è il simbolo, e Foscolo se ne serve per mostrarci che lui è ancora più “bello”, se non di “fama”, certamente di “sventura”, visto che, a differenza dell’eroe omerico che alla fine riesce a baciare “la sua petrosa Itaca”, per lui la sofferenza dell’esilio non avrà termine (“a noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”).



11) Ma nell’opera di Foscolo c’è un’altra rappresentazione di Ulisse: nei Sepolcri Ulisse viene contrapposto come itaco astuto al magnanimo Aiace; è colui che con l’astuzia è riuscito a farsi assegnare le armi di Achille, che invece, per valore guerriero, sarebbero spettate ad Aiace. Costui impazzisce e si uccide, ma “a’ generosi / giusta di glorie dispensiera è morte”, e dunque, per volontà degli dei, Ulisse farà naufragio e il mare riporterà sul sepolcro di Aiace (“alle prode Retèe”, sul promontorio Retèo, vicino a Troia) le armi ingiustamente sottrattegli. Così dice il poeta, rivolgendosi ad Ippolito Pindemonte, il dedicatario del carme:



Felice te che il regno ampio de’ venti,

Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!

E se il piloto ti drizzò l’antenna

Oltre l’isole Egée, d’antichi fatti

Certo udisti suonar dell’Ellesponto

I liti, e la marea mugghiar portando

Alle prode Retèe l’armi d’Achille

Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi

Giusta di glorie dispensiera è morte:

Nè senno astuto, nè favor di regi

All’Itaco le spoglie ardue serbava,

Chè alla poppa raminga le ritolse

L’onda incitata dagl’inferni Dei.


Sembra qui ritornare lo scelerum inventor, che si contrappone all’altro Ulisse, quello che, per amore di conoscenza, è disposto ad affrontare ogni sacrificio.

Ulisse in Primo Levi


Primo Levi



8) Facciamo un salto nel cuore del Novecento, perché ritroviamo l’Ulisse di Dante in Se questo è un uomo, il libro in cui Primo Levi racconta della sua deportazione e del suo internamento nel lager di Auschwitz. Il canto di Ulisse è il titolo di uno dei capitoli più belli e commoventi del libro. Primo Levi fa amicizia con un altro internato, Jean, il Pikolo (era chiamato così, dice Levi, chi aveva la carica di fattorino-scritturale, addetto a varie mansioni, fra cui quella di tenere la contabilità delle ore di lavoro); Jean parla francese e tedesco e vorrebbe imparare l’italiano e Primo si propone di cominciare a insegnarglielo durante il tragitto che fanno per andare a prendere e trasportare la marmitta con il rancio.



9) Gli viene in mente il canto di Ulisse, se lo ricorda a pezzi, spiega al Pikolo i versi che ricorda e si accorge lui stesso di scoprirne dei significati che, fuori da quella tragica condizione, gli erano sempre sfuggiti: dovevo venire al lager, dice, per capire meglio. “E misi me per l’alto mare aperto”; nel “mettere sé” c’è un’idea dello slanciarsi, più forte di un semplice dirigersi; e poi c’è il “mare aperto”, quello che ha per limite soltanto l’orizzonte. E quegli uomini, la cui umanità era annientata, si commuovevano ascoltando il monito di Ulisse: Fatti non foste per viver come bruti… Quel monito, il ricordo di essere uomini e non bestie, li aiuta a sopravvivere:

… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è più un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto. (…. ) Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:

Lo maggior corno della fiamma antica

cominciò a crollarsi mormorando,

pur come quella cui vento affatica.

Indi, la cima in qua e in là menando

come fosse la lingua che parlasse

mise fuori la voce, e disse: Quando…



Qui mi fermo e cerco di tradurre. Disastroso: povero Dante e povero francese! Tuttavia l’esperienza pare prometta bene: Jean ammira la bizzarra similitudine della lingua e mi suggerisce il termine appropriato per rendere «antica». E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria. «Prima che sì Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile; «… la piéta Del vecchio padre, né ’l debito amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi esatto?



… Ma misi me per l’alto mare aperto.



Di questo sì, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto più forte e più audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane. […] «Mare aperto», «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento più se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio. Non ho salvato che un verso, ma vale la pena fermarcisi:



Acciò che l’uom più oltre non si metta.



«Si metta»: dovevo venire nel Lager per accorgermi che è la stessa espressione di prima, «e misi me». Ma non ne faccio parte a Jean, non sono sicuro che sia una osservazione importante. Quante altre cose ci sarebbero da dire, e il sole è già alto, mezzogiorno è vicino. Ho fretta, una fretta furibonda. Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca:



Considerate la vostra semenza:

fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza.



Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono. Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di più: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.



Li miei compagni fec’io si acuti...



...e mi sforzo, ma invano, di spiegare quante cose vuoi dire questo «acuti». Qui ancora  una lacuna, questa volta irreparabile. «... Lo lume era di sotto della luna» o qualcosa di simile; ma prima?... Nessuna idea, «keine Ahnung» come si dice qui. Che Pikolo mi scusi, ho dimenticato almeno quattro terzine (..).



Quando mi apparve una montagna, bruna

Per la distanza, e parvemi alta tanto

Che mai veduta non ne avevo alcuna.



Sì, sì, «alta tanto», non «molto alta», proposizione consecutiva. E le montagne, quando si vedono di lontano.. le montagne... oh Pikolo, Pikolo, di’ qualcosa, parla, non lasciarmi pensare alle mie montagne, che comparivano nel bruno della sera quando tornavo in treno da Milano a Torino!

Basta, bisogna proseguire, queste sono cose che si pensano ma non si dicono. Pikolo attende e mi guarda.

Darei la zuppa di oggi per saper saldare «non ne avevo alcuna» col finale. Mi sforzo di ricostruire per mezzo delle rime, chiudo gli occhi, mi mordo le dita: ma non serve, il resto è silenzio. Mi danzano per il capo altri versi: «...la terra lagrimosa diede vento ...» no, è un’altra cosa. È tardi, è tardi, siamo arrivati alla cucina, bisogna concludere:



Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque,

Alla quarta levar la poppa in suso

E la prora ire in giù, come altrui piacque...



Trattengo Pikolo, è assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo «come altrui piacque», prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...

Siamo oramai nella fila per la zuppa, in mezzo alla folla sordida e sbrindellata dei porta-zuppa degli altri Kommandos. I nuovi giunti ci si accalcano alle spalle. – Kraut und Rüben? – Kraut und Rüben –. Si annunzia ufficialmente che oggi la zuppa è di cavoli e rape: – Choux et navets. – Káposzta és répak.



Infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso.

Ulisse in Dante


Dante

4) E’ questa doppiezza della tradizione che arriva a Dante: Ulisse è sia scelerum inventor (e fandi fictor) sia cupidus sapientiae, e di questa doppiezza il canto XXVI dell’Inferno rende testimonianza. Come “scelerum inventor” Ulisse è dannato nella bolgia dei consiglieri frodolenti (è detto esplicitamente da Virgilio, laddove indica le colpe per cui Ulisse e Diomede “insieme vanno”: l’agguato del cavallo, l’inganno a Deidamia, il furto del Palladio). Ed è un peccato per il quale Dante si sente particolarmente coinvolto, visto che, al solo ricordo della bolgia, sente il bisogno di ammonire se stesso (vv. 19-24). E’ un peccato che ha a che fare non solo con l’intelligenza (questo vale per tutte le bolge), ma particolarmente con l’uso frodolento della parola, dunque con l’uso distorto di una capacità altamente umana, quella di parlare, di cui un letterato come Dante più di altri dispone: che di questo si tratti non mi pare dubbio, visto che un aspetto del contrappasso consiste proprio nella difficoltà ad articolare parole (come è evidente qui, ma ancora di più nel canto successivo, con Guido da Montefeltro):



Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando,
pur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori e disse
: «Quando

mi diparti’ da Circe…

.

5) Sono tutte espressioni che indicano la fatica di parlare, di emettere la voce. Piccola parentesi: Dante non aveva letto l’Odissea, e forse nemmeno dei riassunti, tant’è che – forse sulla scorta di ciò che dice Ovidio in un passo delle Metamorfosi (XIV, 436 ss.) –  immagina che Ulisse parta per il suo viaggio fatale dopo il soggiorno presso Circe, mentre noi sappiamo che nella narrazione omerica dopo quell’episodio seguono altre avventure fino al ritorno ad Itaca. Ma torniamo al testo di Dante. Il racconto di Ulisse sulla propria morte, non ha a che fare con il peccato per cui è dannato (a meno che non si voglia vedere nell’ “orazion picciola” il consiglio frodolento, cosa davvero difficile visto che si fa appello a valori nobilissimi, quali la superiorità dell’uomo sui bruti e l’aspirazione alla conoscenza):



"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".



6) E’ invece la narrazione di una vicenda che si conclude tragicamente perché l’umanissimo desiderio di conoscere del pagano Ulisse non è sostenuto dalla grazia divina. Per questo suo desiderio di conoscere (l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore) Ulisse era esaltato dalla tradizione classica (si veda come lo rappresentano gli auctores sopra citati). E così Dante lo recepisce. Ma il cristiano Dante sa anche che senza l’aiuto della grazia la conoscenza non può giungere alla verità. Per questo il “volo” di Ulisse è “folle”, e la follia in Dante (si veda il canto II: “temo che la venuta non sia folle”) indica appunto la presunzione dell’intelletto di giungere alla verità con le sole sue forze, senza la Rivelazione, senza la grazia (se questo fosse stato possibile, “mestier non era parturir Maria”, dice Virgilio in Pg. III pensando con tristezza alla condizione di pagani dotati di grande intelligenza). Dunque quel viaggio verso una verità inconoscibile con le sole forze umane non può che fallire, la nave di Ulisse non può che naufragare in vista della montagna del Purgatorio.



7) L’alter ego di Ulisse è Dante stesso, che compie, come lui, un viaggio al di là delle capacità umane (e infatti aveva temuto che fosse “folle”); ma, diversamente dall’eroe omerico, Dante è sostenuto dalla grazia divina, lui potrà giungere alla spiaggia del Purgatorio (dove, non a caso, ricorderà ancora il fallimento del viaggio di Ulisse: non diversamente si deve intendere il riferimento di Pg. I, 130-132). 



Venimmo poi in sul lito diserto,

che mai non vide navicar sue acque

omo, che di tornar sia poscia esperto.

Ulisse nella tradizione latina


La tradizione

1) Omero nell’introduzione dell’Odissea, laddove invoca la Musa, chiama Ulisse polìtropos, ovvero “dal multiforme ingegno” e dice che nel suo viaggio di ritorno da Troia “vide molte città e di molti uomini conobbe il noon, il pensiero, l’indole, la mente”. Qui c’è già il doppio aspetto del carattere di Ulisse, giacchè da una parte, con il riferimento alla versatilità dell’ingegno, si allude alla sua astuzia, dall’altra, con il riferimento al suo peregrinare di gente in gente, si allude al suo desiderio di conoscenza.

2) E’ dunque una fama doppia quella che caratterizza il personaggio di Ulisse sin dalle origini; ed è  una doppiezza che ritorna nella tradizione, a cominciare dagli autori latini. Infatti Virgilio nell’Eneide lo chiama scelerum inventor, cioè inventore di scelleratezze, di inganni, ma anche fandi fictor, che significa creatore, inventore di discorsi, falsificatore di parole, intendendo sempre inventore di inganni tramite parole. Anche Ovidio, nel libro XIII delle Metamorfosi, laddove si riporta la contesa per ereditare le armi di Achille fra Aiace ed Ulisse (contesa vinta da quest’ultimo grazie all’uso astuto dell’abilità di parola), lo chiama hortator scelerum, istigatore di scelleratezze.

 3) Invece Cicerone, Orazio, Seneca ne parlano come di un uomo bramoso, sopra ogni cosa, di conoscenza. Così dice di lui Orazio, nella seconda epistola del I libro (vv. 17-22):

Si propone, come utile esempio di ciò che possono virtú e saggezza (quid virtus et quid sapientia possit), Ulisse, che dopo aver vinto Troia, si preoccupò di conoscere le città e i costumi di molte genti (multorum providus urbes, et mores hominum inspexit) , mentre sull'ampia distesa del mare, cercando il ritorno per sé e per i suoi, soffrì travagli d'ogni genere, senza lasciarsi mai sommergere dai marosi dell'avversa fortuna.

E Seneca, in un passo del De constantia sapientis (II, 2), in cui vuole elogiare la superiore saggezza di Catone l’Uticense, ricorda che nei tempi antichi altrettanto saggio era ritenuto Ulisse:

(…) quanto a Catone, gli dei immortali ci hanno dato un esempio di uomo sapiente ancora più alto di quello che ci avevano dato con Ercole e Ulisse nei secoli precedenti. Questi ultimi infatti vennero dichiarati sapienti dai nostri (maestri) stoici, perché invincibili nelle fatiche, sprezzanti del piacere e vincitori di tutte le paure (sapientes pronuntiaverunt, invictos laboribus et contemptores voluptatis et victores omnium terrorum).

Infine Cicerone, in un passo del De finibus bonorum et malorum (V, 18), laddove sostiene che il desiderio di conoscere è proprio dell’uomo e che chi ama la conoscenza è disposto per lei ad ogni sacrificio, interpreta in questo senso l’episodio dell’Odissea in cui si narra del passaggio di Ulisse presso l’isola delle Sirene:

Non vediamo forse che chi si diletta degli studi e delle arti non tiene conto né della salute né degli interessi familiari e tutto sopporta, preso dalla conoscenza e dal sapere, e trova un compenso delle grandissime fatiche nel piacere che prova nell’imparare? Tanto che a me sembra che Omero abbia concepito qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene. Non mi sembra infatti che fossero solite attirare coloro che passavano con la dolcezza della voce o con la novità e la bellezza del canto, ma perché dichiaravano di sapere molte cose, così che gli uomini andavano a sbattere contro i loro scogli per bramosia di sapere. Così infatti attirano Ulisse (…) Omero capì che la storia non poteva essere creduta se un uomo tanto grande fosse stato attirato con delle canzonette; è la conoscenza che (le Sirene) promettono, e non è incredibile che questa fosse più cara della patria per un uomo bramoso di sapienza (cupido sapientiae).

martedì 6 febbraio 2018

Amore e morte in Lucrezio


Lucrezio: la filosofia di Epicuro



11) Queste considerazioni di Freud sull’amore e sulla morte mi hanno sempre fatto pensare ad un poeta latino, Lucrezio, autore di un poema filosofico, il De rerum natura, la natura delle cose. Ebbene, nell’introduzione del suo poema Lucrezio sembra anticipare, a modo suo, con riferimenti poetici alle divinità, le ipotesi di Freud sulla natura degli istinti.

12) Leggeremo alcuni versi di quella introduzione, ma prima sarà bene dire qualche parola sull’autore e sul suo poema. Ho detto che si tratta di un poema filosofico, infatti Lucrezio si propone niente meno che di esporre in lingua latina i principi della filosofia epicurea. Ritiene infatti che questa filosofia sia benefica per gli uomini, in quanto dà loro la consapevolezza, la conoscenza razionale, della reale natura delle cose, li libera dalle paure irrazionali, prima di tutto dalla madre di tutte le paure, la paura della morte. Ma è una filosofia materialista, pericolosamente sovversiva, dunque guardata con diffidenza dal potere politico perché mina, per due aspetti, le fondamenta stesse dello Stato romano: nega l'intervento degli dei nelle vicende terrene (dunque attacca la religione come una superstizione da ignoranti) e, professando il principio del "vivi nascosto" (in greco, lathe biòsas), predica l'astensione dalla vita politica (laddove la partecipazione, l’impegno, il latino il negotium, è uno dei pilastri su cui si regge lo Stato romano). E infatti Cicerone, perfetto rappresentante della classe dirigente romana, diceva: tali idee dovrebbero essere proibite da un censore piuttosto che confutate da un filosofo.

13) Non stupisce quindi che Lucrezio e il suo poema non siano citati quasi mai dagli altri autori latini e che siano così rari i manoscritti che ne tramandarono il testo durante il Medioevo. C’è stata una sorta di congiura del silenzio nei confronti di Lucrezio o, come si dice in latino, di damnatio memoriae, di condanna all’oblio. Non stupisce che nel Medioevo cristiano quel poema materialista e sostanzialmente ateo fosse intenzionalmente trascurato dai monaci copisti. Non sto a fare la storia, molto avventurosa, del ritrovamento dei rari e frammentari manoscritti e della faticosa ricostruzione del testo originale. Basterà dire che il manoscritto fondamentale è stato ritrovato a Fulda, in Germania, nel 1418; quel manoscritto è andato perduto, ma sulla base delle copie tratte da quello è stato ricostruito il testo del De rerum natura.

14) La filosofia di Epicuro predica la ricerca del piacere (voluptas in latino, edonè in greco), ma il piacere di cui si parla non è il piacere materiale, il piacere delle gozzoviglie, il piacere dei dissoluti, come volgarmente si crede quando si dice di qualcuno che “vive da epicureo”, e nemmeno è il piacere che si pensa di ottenere inseguendo onori e ricchezze. Questi sono falsi piaceri (Epicuro parla di piacere “cinetico” o dinamico o in movimento, ed è un piacere che genera inquietudine, turbamento e sofferenza), mentre il vero piacere è “catastematico”, ovvero statico, e si realizza come libertà da ogni agitazione dell’animo e consiste in aponìa (mancanza di dolore) e in atarassìa (mancanza di turbamento: tale è la condizione degli dei, che infatti non si interessano delle vicende umane, altrimenti ne sarebbero turbati). Per il resto, basta poco: non aver fame, non sete, non freddo, giacchè, secondo il motto del maestro, “niente basta a colui per il quale è poco ciò che basta”.

15) Ed ecco il cosiddetto “tetrafarmaco”, ovvero le quattro medicine che guariscono dai quattro mali fondamentali che impediscono il raggiungimento del piacere: contro la paura degli dei e delle punizioni dopo la morte, bisogna sapere che gli dei vivono in condizione di atarassia e dunque non si interessano delle vicende umane; contro la paura della morte bisogna sapere che la morte non ci riguarda, perché, come dice il maestro, “quando ci sono io non c’è la morte e quando c’è la morte non ci sono io”; contro la paura che il piacere non sia raggiungibile, bisogna sapere che basta soddisfare, con giusta misura, i bisogni naturali; contro la paura del dolore, bisogna sapere che il dolore è sopportabile, perché se è debole ci si convive, se è acuto non può che passare presto.

Lucrezio: eros e thanatos nell’inno a Venere

16) Con tutto ciò, che c’entrano l’amore e la morte nel senso in cui ne parlava Freud? C’entrano, secondo me, se leggiamo l’introduzione al poema, il famoso inno a Venere. Ma come, si sono chiesti molti lettori, il poeta che dice che gli dei sono estranei alla vicende umane (il che equivale, se ci pensate bene, a negarne l’esistenza), dedica un inno ad una dea, prega, come vedremo per un suo intervento? Il problema si risolve se si pensa che Venere è la dea dell’amore, dunque in lei Lucrezio personifica quella forza, quell’istinto che spinge gli uomini e gli animali ad amare e a riprodursi. L’inno si apre infatti con una celebrazione della primavera, che è la stagione in cui la potenza di Venere, ovvero l’istinto ad amare, fa sentire maggiormente la sua forza:

Madre dei discendenti di Enea (sono i Romani, secondo il mito discendenti di Enea, il quale a sua volta era figlio di Venere) piacere (voluptas) degli uomini e degli dèi, Venere che dai la vita, che sotto le mobili costellazioni celesti popoli il mare portatore di navi e la terra fertile di messi, poiché grazie a te ogni genere di esseri animati è concepito e vede, (una volta) nato, la luce del sole: te, dea, te fuggono i venti, te ed il tuo arrivo le nuvole del cielo, per te la terra industriosa fa crescere i fiori soavi, per te sorridono le distese marine, e, rasserenato, il cielo brilla di una luce diffusa. Infatti, non appena la bellezza del giorno primaverile [la bellezza primaverile del giorno] si svela, ed il soffio fecondo del favonio, liberato, prende forza (il favonio è un vento primaverile, perciò chiamato genitabilis, fecondo, vivificatore, perché stimola ad amare e quindi a generare nuove vite) per prima cosa gli uccelli del cielo annunciano te e il tuo arrivo, o dea, colpiti in cuore dalla tua potenza. Quindi le bestie feroci e le greggi balzano qua e là per i pascoli rigogliosi ed attraversano i fiumi vorticosi: così (ciascuna bestia), presa dal (tuo) fascino, ti segue desiderosa ovunque tu voglia condurla. Infine per i mari ed i monti ed i fiumi impetuosi e per le frondose dimore degli uccelli ed i campi verdeggianti, ispirando a tutti nel cuore un soave (sentimento d’) amore, fai sì che con desiderio propaghino le loro generazioni stirpe per stirpe. E poiché tu sola governi la natura, e senza di te nulla nasce nelle divine spiagge della luce, e nulla diviene lieto né amabile, desidero che tu (mi) sia compagna nello scrivere (questi) versi, che tento di comporre sulla natura per il nostro Memmio (Gaio Memmio è l’amico a cui Lucrezio dedica il poema), che tu, o dea, hai voluto eccellesse in ogni tempo, adorno di ogni qualità. Tanto più, dunque, concedi, o dea, un piacere inestinguibile alle (mie) parole.


17) Ora però, poiché Memmio è impegnato in guerra e quindi non può ascoltare gli insegnamenti della filosofia epicurea (Lucrezio non lo dice e noi non sappiamo di quale guerra si tratti), nella seconda parte dell’inno il poeta implora Venere (la dea dell’amore, portatrice di vita) perchè col suo fascino seduca Marte (il dio della guerra, portatore di morte) e così facendo indebolisca la sua potenza e gli impedisca di scatenarsi sui campi di battaglia, in altre parole, perché l’amore vinca sulla morte:

Fa’ che frattanto i feroci impegni della guerra, per  mare e per  terra, spenti, si acquetino. Infatti tu sola puoi giovare ai mortali con una tranquilla pace, perché le feroci occupazioni della guerra (le) governa Marte potente nelle armi, che spesso si abbandona sul tuo grembo, vinto dall’eterna ferita d’amore; e così levando lo sguardo (suspiciens, letteralmente guardando dal basso verso l’alto, perché appunto l’immagine è quella di Marte che ha posato la sua testa sul grembo di Venere) reclinato il morbido collo, nutre d’amore gli avidi sguardi, anelando a te (inhians, cioè respirando a bocca aperta), o dea, e dalla tua bocca pende il respiro (di lui) abbandonato (su di te). E tu, o dea, abbracciando (circumfusa super, letteralmente abbracciandolo da sopra) con il tuo santo corpo lui (così) disteso, emetti dalla (tua) bocca soavi parole, chiedendo(gli) per i Romani, o ìnclita, una tranquilla pace. Infatti né io posso scrivere con animo sereno in un tempo nefasto per la patria, né l’illustre stirpe di Memmio (può) venir meno alla salvezza comune in tali circostanze.


18) L’idea di Lucrezio è che solo la forza dell’amore possa annullare, o almeno indebolire, la forza della guerra, della distruzione, della morte. Non mi pare difficile riconoscere in Venere e Marte le due potenze celesti di cui parla Freud, e, analogamente, come, per Lucrezio, solo Venere può frenare Marte, così Freud è convinto che solo Eros può bloccare la potenza distruttiva di Thanatos.

Lucrezio: liberarsi dall’innamoramento

19) L’amore, inteso come eros, è dunque una buona cosa. Quel che non è buono, per Lucrezio, è l’innamoramento, l’amore come passione che sconvolge la mente. Questo amore va contro i principi della filosofia epicurea che indica come obiettivo l’assenza di turbamenti, mentre l’amore passionale comporta turbamenti al massimo grado. 
20) Apro una parentesi: l’unica notizia biografica di Lucrezio l’abbiamo da S. Gerolamo, che visse nel IV sec. d.C. (dunque parecchi secoli dopo Lucrezio, che era vissuto nel I sec. a.C.) e dice che Lucrezio impazzì per un filtro d’amore, scrisse la sua opera negli intervalli della pazzia e infine si suicidò. Chissà dove ha preso Gerolamo questa notizia, ma certo, fondata o meno che fosse, sembra contribuire alla diffamazione di Lucrezio, autore di un poema ateo e materialista. Il filtro d’amore indica un innamoramento che sconvolge la mente al punto di togliere il senno e infine indurre al suicidio. La massima punizione, un vero e proprio contrappasso per chi ha voluto insegnare agli altri come condizione ideale quella dell’atarassia, ovvero dell’assenza di turbamento. Leggo alcuni passi sull’argomento:

Questa è Venere per noi; e di qui viene il nome di amore, di qui nel cuore stillò la prima goccia della dolcezza di Venere, e ne seguì un gelido affanno. Infatti, se è assente l'oggetto del tuo amore, son tuttavia presenti le sue immagini, e il dolce nome non abbandona le tue orecchie. Ma conviene fuggire quelle immagini e respingere via da sé ogni attrattiva che alimenti l'amore e volgere la mente ad altro oggetto e spandere in altri corpi, quali che siano, l'umore raccolto, e non trattenerlo essendo rivolto all'amore d'una persona sola, e così riservare a sé stesso affanno e sicuro dolore. Giacché la piaga s'inacerbisce e incancrenisce, a nutrirla, e di giorno in giorno la follia aumenta e la sofferenza s'aggrava, se non scacci con nuove piaghe le prime ferite, e non le curi passando da uno  a un altro amore, o trovi modo di rivolgere altrove i moti dell'animo. Né dei frutti di Venere è privo colui che evita l'amore, ma piuttosto coglie le gioie che sono senza pena.

E poi più oltre:

Aggiungi che sciupano le forze e si struggono nel travaglio; aggiungi che si trascorre la vita al cenno di un'altra persona.

Son trascurati i doveri, e ne soffre il buon nome e vacilla. Frattanto il patrimonio si dilegua, e si converte in profumi babilonesi, e bei sandali di Sicione ai piedi ridono, e grandi smeraldi dai riflessi verdi sono incastonati nell'oro, e la veste color di mare si sciupa per l’uso ininterrotto, e maltrattata s’imbeve del sudore di Venere; e i beni dei padri, guadagnati onestamente, diventano bende, diademi, talora si tramutano in un mantello femminile e in tessuti di Alinda e di Ceo. S'apparecchiano conviti con splendide tovaglie e vivande, giochi, libagioni senza risparmio, unguenti, corone, serti, ma invano, perché di mezzo alla fonte delle delizie sorge qualcosa di amaro che pur tra i fiori angoscia, o quando per caso l'animo conscio s'angustia per il rimorso d'una vita trascorsa nell'inerzia e perduta tra i bagordi, o perché lei ha buttato lì, lasciandone in dubbio il senso, una parola, che conficcata nel cuore appassionato divampa come fuoco, o perché gli sembra che troppo lei getti occhiate o che il suo sguardo sia attratto da un altro, e nel suo volto vede le tracce d'un sorriso. E questi mali si trovano in un amore felice e pienamente corrisposto; ma, se è infelice e senza speranza, ci sono mali innumerevoli che puoi cogliere anche ad occhi chiusi; sì che è meglio stare prima all'erta, come ho insegnato, e guardarsi dall'essere adescati. Difatti evitare di cadere nei lacci d'amore non è così difficile come districarsi, una volta presi in mezzo alle reti, e spezzare i possenti nodi di Venere. E tuttavia, anche avviluppato e inceppato, potresti sfuggire all'insidia, se proprio tu non opponessi ostacoli a te stesso, e non ti celassi in primo luogo tutti i difetti dell'animo o quelli del corpo di colei che prediligi e desideri.


21) Seguono poi degli insegnamenti per liberarsi dall’innamoramento, il primo dei quali consiste nel riconoscere i difetti dell’animo e del corpo della donna di cui si è innamorati, quei difetti che l’innamorato, reso cieco dall’amore, non vede e anzi vede come pregi. Lucrezio ne fa un elenco:


E tuttavia, anche preso e avvinghiato, potresti sfuggire all'insidia, se proprio tu non opponessi ostacoli a te stesso, e non ti celassi in primo luogo tutti i difetti dell'animo o quelli del corpo di colei che prediligi e desideri. Questo infatti fanno per lo più gli uomini accecati dalla passione, e attribuiscono alle amate pregi ch'esse non posseggono davvero. Così vediamo che donne per molti aspetti brutte e corrotte sono adorate e godono del più alto onore. E poi (gli innamorati) si deridono a vicenda, e l'uno invita l'altro a placare Venere, perché lo affligge un brutto amore, e spesso non scorge, l'infelice, i propri mali, che sono i più grandi. Una di pelle scura "ha il colore del miele", la sudicia e sciatta è "semplice", se ha occhi verdastri è "l'immagine di Pallade", se è nervosa e secca è "una gazzella", la piccoletta, la nanerottola, è "una delle Grazie, tutto pepe", se è un donnone sgraziato è "un prodigio" ed è "piena di maestà". La balbuziente, che non può parlare, "cinguetta", la muta è "pudica"; e l'irruente, odiosa, linguacciuta è "tutta fuoco". Diventa "un sottile amorino", quando per magrezza ha nel volto l’aspetto della morte;  se poi sta morendo di tosse, "poverina, è delicata". E la grassa e popputa è "Cerere stessa dopo aver partorito Bacco", se ha il naso camuso è "una Silena" e "una Satira", se ha i labbroni è "una boccuccia da schioccarvi baci". Troppo mi dilungherei, se tentassi di dire tutte le altre cose di questa specie. Ma tuttavia sia pure bella in volto quanto vuoi, sia tale che da tutte le sue membra promani il potere di Venere: certo ce ne sono anche altre; certo senza di lei siamo vissuti per l'addietro (…)


22) Dunque bisogna liberarsi dalla passione d’amore, che sconvolge la mente e non consente una vita serena. Facile a dirsi, non altrettanto a farsi, se ha qualche fondamento la notizia di S. Gerolamo, secondo cui lo stesso Lucrezio non sarebbe stato capace di seguire i propri insegnamenti e sarebbe stato vittima di una passione d’amore talmente sconvolgente da portarlo alla pazzia e infine al suicidio.



Lucrezio: liberarsi dalla paura della morte



23) Chissà se è stato capace di liberarsi dalla paura della morte, che è la madre di tutte le paure, la causa prima che ostacola il raggiungimento del piacere e quindi la possibilità di vivere una vita serena. La liberazione da questa paura è al centro della filosofia di Epicuro, ed è possibile giungervi se ci si libera di tutte le superstizioni e false credenze e ci si affida completamente alla conoscenza scientifica della natura.

24) Tale conoscenza ci dice che tutta la realtà è costituita di atomi, particelle materiali indivisibili e indistruttibili che differiscono per grandezza, forma e peso; gli atomi, incontrandosi nel vuoto e aggregandosi fra loro, formano i corpi. Anche l’anima è fatta di atomi, più leggeri e meno connessi di quelli del corpo. La morte non è altro che una disaggregazione di tali atomi, sia di quelli del corpo che di quelli dell’anima. E’ l’idea che l’anima persista, e con essa persistano la coscienza e la memoria, a generare angoscia, mentre invece con la disaggregazione degli atomi cessa ogni forma di coscienza e di sensibilità, e dunque non ci può essere alcuna sofferenza perché, appunto, quando c’è la morte non ci siamo più noi. Ci dà angoscia il vederci inumati sotto terra o cremati in un rogo, ma è perché proiettiamo la nostra coscienza e sensibilità laddove coscienza e sensibilità non esistono più:


Ma, poiché la morte annulla l’esistenza, con ciò impedisce che esista colui che dovrebbe subire quelle sofferenze; dunque è chiaro che niente noi dobbiamo temere nella morte, e che non può divenire infelice chi non esiste affatto, né fa alcuna differenza se egli sia nato o non sia nato in alcun tempo, quando la vita mortale è annullata dalla morte immortale. Quindi, se vedi un uomo dolersi della propria sorte, perché dopo la morte dovrà, sepolto il corpo, putrefarsi o essere distrutto dalle fiamme o dalle mascelle delle fiere, puoi capire che le sue parole non suonano sincere e che in fondo al suo cuore c'è qualche pungolo segreto, benché egli asserisca di non credere che da morto avrà qualche sensazione. Infatti, io credo, dimostra in ciò di non avere coerenza, né si toglie e si distacca dalla vita radicalmente, ma presuppone inconsciamente che  qualcosa di sé gli sopravviva. Ognuno infatti che da vivo si immagina che dopo la morte uccelli e fiere sbraneranno il suo corpo, commisera sé stesso; e infatti non riesce a staccarsi da lì, né si allontana abbastanza dal cadavere buttato lì e si immagina di essere proprio quello e, standogli accanto, gli comunica i propri sensi. Per questo si duole d'esser nato mortale e non vede che nella vera morte non ci sarà un altro sé stesso che possa, vivo, piangere sé stesso morto e, stando lì in piedi, lamentarsi di giacere a terra e d'essere sbranato o bruciato.


25) Con la morte non esiste più la nostra individualità cosciente, come non esisteva prima che nascessimo; gli atomi si sono disaggregati e non compongono più quella individualità concreta che sono io, così come non la componevano prima che nascessimo; e come nessuna sofferenza abbiamo patito prima della nascita, così nessuna sofferenza patiremo dopo la morte. E quand’anche in futuro gli atomi si ricomponessero allo stesso modo, ricostituendo la stessa individualità (è l’ipotesi della cosiddetta metempsicosi, ovvero della rinascita o reincarnazione), ebbene nemmeno questo ci riguarderebbe, perché sarebbe sempre un altro io, senza alcuna memoria dell’io precedente:


Nulla dunque la morte è per noi, e per niente ci riguarda, dal momento che la natura dell'animo è da ritenersi mortale. E come nel tempo passato non provammo alcuna sofferenza, mentre i Cartaginesi da ogni parte venivano ad assalirci, quando tutto il mondo, sconquassato dal trepido tumulto della guerra, tremò d'orrore sotto le alte volte del cielo, e fu dubbio sotto il regno di quale dei due popoli dovessero cadere tutti gli uomini sulla terra e sul mare, così quando noi non ci saremo più, quando sarà avvenuto il distacco del corpo e dell'anima, che uniti compongono il nostro essere, certo a noi, che allora non saremo più, non potrà affatto capitare alcun malanno, nulla potrà colpire i nostri sensi, neppure se la terra si mescolerà col mare e il mare col cielo


26) Il riferimento ai Cartaginesi è il riferimento a quella guerra terribile che fu la seconda Punica, una guerra fra due super-potenze, quali erano allora Roma e Cartagine. Annibale trasportò un esercito, uomini ed elefanti, dalla Spagna in Italia, attraverso i Pirenei e le Alpi. Le legioni romane subirono più di una sconfitta, morirono decine di migliaia di uomini e tutta l’Italia visse nel terrore finchè il console Scipione non riuscì ad avere la meglio sul nemico invasore. Ebbene, dice Lucrezio, noi, che non eravamo ancora nati, non abbiamo provato alcuna sofferenza, così come oggi noi, che non eravamo nati al tempo della II guerra mondiale, potremmo dire che non abbiamo provato alcuna sofferenza quando invece chi era vivo era terrorizzato per i bombardamenti degli alleati o per i rastrellamenti dei Tedeschi. Allo stesso modo, dice Lucrezio, nessuna sofferenza patiremo quando saremo morti, nemmeno se ci sarà una catastrofe universale (neppure se la terra si mescolerà col mare e il mare col cielo). E così continua:


(…) E quand'anche il tempo raccogliesse la nostra materia dopo la morte e di nuovo la ricomponesse nell'assetto in cui si trova ora e a noi fosse ridata la luce della vita, tuttavia neppure questo evento ci riguarderebbe minimamente, una volta che fosse interrotta la continuità della nostra coscienza. Così ora a noi non importa nulla di noi, quali fummo in precedenza, ‹né› ormai per quel nostro essere ci affligge angoscia. E invero, se volgi lo sguardo verso tutto lo spazio trascorso del tempo illimitato, e consideri quanto siano molteplici i movimenti della materia, facilmente puoi indurti a credere che questi stessi atomi, di cui siamo composti ora, già prima siano stati spesso disposti nel medesimo ordine in cui sono ora. Eppure non possiamo riafferrare con la memoria quell'esistenza; s'è interposta infatti una pausa della vita e tutti i moti si sviarono per ogni dove, lontano dai sensi. Infatti, se sventura e affanno devono colpire qualcuno, occorre che esista quella stessa persona in quel tempo in cui possa colpirlo la sventura.

Amore e morte in Freud


Introduzione

1) Il corso si intitola “Amore e morte nella letteratura, nella filosofia, nel cinema”. Io tratterò il tema soprattutto dal punto di vista letterario, con riferimento ad autori e testi sia della classicità, sia della letteratura italiana. Sto dando un’indicazione generica, perché ovviamente si tratta di una selezione di autori e testi secondo i miei gusti e le mie conoscenze, visto che l’argomento in questione è vastissimo, lo si può ritrovare in tanti autori di tante letterature, antiche e moderne, è un argomento caro alla letteratura di ogni tempo. E non è un caso, perché l’amore e la morte sono eventi centrali nella vita degli uomini, segnano le vicende umane con grande intensità e dunque sono un argomento che ha sempre interessato gli autori e coinvolto emotivamente i lettori.

2) Sono eventi spesso collegati in storie tragiche, dove grandi amori si concludono tragicamente con la morte. Pensate a Romeo e Giulietta di Shakespeare o ad Anna Karenina di Tolstoj: sono amori destinati sin dall’inizio alla conclusione tragica della morte, perché sono amori sovversivi, nascono in opposizione alle regole della società in cui sono collocati (non può realizzarsi l’amore fra Romeo e Giulietta nella Verona delle rivalità insanabili fra famiglie; e non può realizzarsi l’amore di Anna Karenina e Vronskij nella società aristocratica russa che condanna senza appello l’infedeltà coniugale di Anna), ma anche perché il grande amore contiene in sé una promessa di felicità irrealizzabile, una promessa a cui i protagonisti non possono rinunciare, preferendo piuttosto rinunciare ad una vita che nega quella promessa.

3) Ma voglio cominciare con un filosofo, anzi, con un medico-filosofo, mi riferisco a Freud, l’inventore della psicanalisi. Ci si potrebbe chiedere che ha a che fare Freud con amore e morte, e la risposta è: ha molto a che fare, perché Freud ha concepito l’idea che l’istinto di vita, l’impulso ad amare (che lui chiama eros, appunto, amore in greco) e l’istinto di morte (che lui chiama thanatos, in greco morte) siano gli istinti fondamentali che determinano i comportamenti umani, sia individuali sia collettivi.

Freud: la scoperta dell’inconscio

4) Prima però sarà bene dare qualche indicazione generale sul carattere del pensiero di Freud. Al centro del pensiero di Freud c’è la scoperta del cosiddetto inconscio. In altre parole Freud pensa che al di sotto della parte cosciente della nostra mente ci sia una parte inconscia che determina i nostri comportamenti. E questa parte inconscia è tutt’altro che irrilevante, visto che è come il corpo immerso di un iceberg, di cui la parte cosciente è soltanto la punta che emerge. L’inconscio non sarebbe altro che un magma di istinti, di pulsioni contro cui la coscienza pone una barriera, respinge nel profondo; ma quegli istinti vogliono essere soddisfatti ed emergono quando la coscienza non è perfettamente vigile, ad esempio nei sogni o nei lapsus, di parola o di comportamento.

5) I lapsus di parola, scritta o parlata, sono ben noti, tant’è che si usa dire “lapsus freudiano” nel linguaggio comune, e succede quando si usa involontariamente una parola al posto di un’altra; ma in quella involontarietà si nasconde un’intenzione reale, il vero pensiero di ha fatto il lapsus. A questo proposito vorrei citare un evento recente, quello del candidato governatore della Lombardia che ha parlato di “razza bianca” a rischio di estinzione. Di fronte all’indignazione generale per questa evocazione di razze contrapposte, il candidato si è scusato dicendo che si è trattato di un lapsus. Una toppa peggiore del buco, perché appunto, secondo Freud, il lapsus rivela il reale pensiero, e dunque, nel caso, la necessità di salvaguardare la razza bianca dall’avanzata di altre razze.

6) I lapsus di comportamento, detti anche “atti mancati”, sono quelli per cui un individuo, apparentemente per sbadataggine o dimenticanza, fa un’azione diversa da quella che avrebbe dovuto fare. Qui ho in mente un esempio letterario, tratto da “La coscienza di Zeno” di Svevo, ed è quello di Zeno che, quando muore il suo amico Guido, cognato e socio in affari, sbaglia funerale, si accorge in ritardo di avere seguito un altro funerale. Ma noi lettori sappiamo che quella era la vera intenzione di Zeno, perché nel suo inconscio persisteva l’odio per Guido che era stato suo rivale in amore.

7) Su questi aspetti il pensiero di Freud ha un’evoluzione. In una prima fase, per indicare la struttura della psiche, parla di Es (l’insieme delle pulsioni, degli istinti profondi, che aspirano alla propria soddisfazione secondo il cosiddetto principio del piacere), di Io (la parte cosciente, che ha imparato a relazionarsi con l’ambiente, e quindi a tenere a freno le pulsioni istintive, acquisendo il cosiddetto principio di realtà), di Super-Io (quella parte della psiche che si è formata a seguito di una sorta di introiezione della figura paterna, e quindi rappresenta, nell’interiorità dell’individuo, l’insieme dei precetti morali, il senso del dovere, su cui il padre vigila e punisce).

Freud: eros e thanatos

8) Solo successivamente, approfondendo la natura dell’Es, Freud parla di una energia psichica che si distingue in pulsione sessuale (libido) e pulsione aggressiva (destrudo), pulsioni che poi in un certo senso personifica con i nomi di Eros (amore) e Thanatos (morte). In altre parole Freud scandalizzò i contemporanei di fine Ottocento non solo dicendo che le nevrosi, le malattie mentali scaturivano dalla repressione dell’eros, delle esigenze sessuali, ma anche dicendo che nella profondità dell’inconscio esiste una pulsione distruttiva ed autodistruttiva.

9) Ma questa concezione faceva anche sì che Freud fosse particolarmente pessimista riguardo il futuro dell’umanità. Se è vero che la civiltà nasce e si fonda sulla necessità di reprimere gli istinti, che altrimenti scaricherebbero la loro energia in maniera distruttiva per la società, e questa repressione garantisce l’ordine e il progresso, è altrettanto vero che gli individui pagano con il prezzo dell’infelicità: dietro l’ordine e il progresso si cela quello che Freud chiama “il disagio della civiltà”. Ogni volta che considera le prospettive future dell’umanità, Freud è decisamente scettico. Così ne “L’avvenire di una illusione” (1927):

Sembra piuttosto che ogni civiltà debba edificarsi sulla coercizione e sulla rinuncia pulsionale… Si deve, a mio parere, tener conto del fatto che in tutti gli uomini sono presenti tendenze distruttive, e perciò antisociali e ostili alla civiltà.


E così ne “Il disagio della civiltà” (1930):


Mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione.


Nota è anche la risposta di Freud ad una lettera inviatagli da Einstein, che avvertiva l’approssimarsi della guerra (siamo nel 1933) e poneva domande sulla possibilità di eliminare la guerra dalla storia dell’umanità. Freud ribadisce che, alla luce dei suoi studi sulla pulsione di morte, non c’è speranza di “sopprimere le tendenze aggressive degli uomini”:

Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente una pulsione all’odio e alla distruzione … Non posso far altro che convenire senza riserve con lei. Noi crediamo all’esistenza di tale istinto (…) Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, può far eco in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, alcuni di cui si parla apertamente e altri che vengono taciuti … Il piacere di aggredire e distruggere ne fa certamente parte, innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza … Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali servissero da paravento alle brame di distruzione (…)


10) L’unico spiraglio che Freud lascia aperto è legato all’altra pulsione, la pulsione sessuale, Eros, l’istinto di vita, che si contrappone a Thanatos, l’istinto di morte. L’energia psichica è una, anche se si distingue in libido (l’energia di Eros) e destrudo (l’energia di Thanatos). Le due energie operano in maniera complementare, il che vuol dire che se si favorisce, a livello sociale, uno sviluppo non repressivo della libido, necessariamente si riducono, o comunque si alterano le manifestazioni della destrudo. E questo sembra essere il senso della speranza con cui si concludeva Il disagio della civiltà:

E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario altrettanto immortale.


E lo stesso concetto Freud esprime nella citata lettera di risposta ad Einstein:


Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione, l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due specie. In primo luogo relazioni come con un oggetto amoroso, anche se prive di meta sessuale. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui si parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Ora, è facile pretenderlo, ma è difficile porlo in atto. L’altra specie di legame emotivo è quella per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative fra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana.

venerdì 26 gennaio 2018

Lucrezio: la passione d'amore (la cura)

La cura: riconoscere i difetti della donna amata (la “galleria” delle donne brutte che appaiono belle agli occhi dell’innamorato)
(De rerum natura, IV, vv. 1149- 1184)
Per guarire dalla malattia della passione amorosa, l'innamorato, che è come cieco, deve aprire gli occhi e riconoscere che quelli che a lui sembrano pregi della donna amata sono invece difetti, fisici e di carattere. Ma se anche la donna fosse davvero bella, basterebbe sorprenderla in momenti privati per risvegliarsi dall'innamoramento e rinsavire.

Et tamen implicitus quoque possis inque peditus
effugere infestum, nisi tute tibi obvius obstes
et praetermittas animi vitia omnia primum
aut quae corporis sunt eius, quam praepetis ac vis.
nam faciunt homines plerumque cupidine caeci
et tribuunt ea quae non sunt his commoda vere.
multimodis igitur pravas turpisque videmus
esse in deliciis summoque in honore vigere.
atque alios alii inrident Veneremque suadent
ut placent, quoniam foedo adflictentur amore,
nec sua respiciunt miseri mala maxima saepe.
nigra melichrus est, inmunda et fetida acosmos,
caesia Palladium, nervosa et lignea dorcas,
parvula, pumilio, chariton mia, tota merum sal,
magna atque inmanis cataplexis plenaque honoris.
balba loqui non quit, traulizi, muta pudens est;
at flagrans, odiosa, loquacula Lampadium fit.
ischnon eromenion tum fit, cum vivere non quit
prae macie; rhadine verost iam mortua tussi.
at nimia et mammosa Ceres est ipsa ab Iaccho,
simula Silena ac Saturast, labeosa philema.
cetera de genere hoc longum est si dicere coner.
sed tamen esto iam quantovis oris honore,
cui Veneris membris vis omnibus exoriatur;
nempe aliae quoque sunt; nempe hac sine viximus ante;
nempe eadem facit et scimus facere omnia turpi
et miseram taetris se suffit odoribus ipsa,
quam famulae longe fugitant furtimque cachinnant.
at lacrimans exclusus amator limina saepe
floribus et sertis operit postisque superbos
unguit amaracino et foribus miser oscula figit;
quem si iam ammissum venientem offenderit aura
una modo, causas abeundi quaerat honestas
et meditata diu cadat alte sumpta querella
stultitiaque ibi se damnet, tribuisse quod illi
plus videat quam mortali concedere par est.

Traduzione


 E tuttavia, anche avviluppato e inceppato, potresti sfuggire
all'insidia, se proprio tu non opponessi ostacoli a te stesso,
e non ti celassi in primo luogo tutti i difetti dell'animo
o quelli del corpo di colei che prediligi e desideri.
Questo infatti fanno per lo più gli uomini ciechi di passione,
e attribuiscono alle amate pregi ch'esse non posseggono davvero.
Così vediamo che donne in molti modi deformi e laide
sono adorate e godono del più alto onore.
E poi s'irridono a vicenda, e l'uno invita l'altro a placare
Venere, perché lo affligge un brutto amore, e spesso
non scorge, l'infelice, i propri mali, che sono i più grandi.
La nera "ha il colore del miele", la sudicia e fetida è "disadorna",
se ha occhi verdastri è "l'immagine di Pallade", se è nervosa e secca è "una gazzella",
la piccoletta, la nanerottola, è "una delle Grazie", è "tutta puro sale",
la corpulenta e smisurata è "un prodigio" ed è "piena di maestà".
La balbuziente, che non può parlare, "cinguetta", la muta è "pudica";
e l'irruente, odiosa, linguacciuta è "tutta fuoco".
Diventa "un sottile amorino", quando non può vivere
per la consunzione; se poi è già morta di tosse, è "delicata".
E la turgida e popputa è "Cerere stessa dopo aver partorito Bacco",
la camusa è "una Silena" e "una Satira", la labbrona è "un bacio".
Troppo mi dilungherei, se tentassi di dire tutte le altre cose
di questa specie. Ma tuttavia sia pure bella in volto quanto vuoi,
sia tale che da tutte le sue membra promani il potere di Venere:
certo ce ne sono anche altre; certo senza di lei siamo vissuti per l'addietro,
certo ella fa in tutto, e noi sappiamo che le fa, le stesse cose
che fa la brutta, e da sé stessa, misera, s'appesta di odori nauseanti:
fuggono allora le ancelle lontano da lei e furtivamente sghignazzano.
Ma l'amante escluso, piangendo, spesso copre di fiori
e ghirlande la soglia, e profuma di maggiorana
la porta superba, e addolorato imprime baci sui battenti;
ma se, alfine ricevuto, lo investisse nell'entrare una sola
di quelle esalazioni, cercherebbe speciosi pretesti per andar via,
e cadrebbe il lamento, a lungo meditato, ripreso da lontano,
e in quel punto egli si taccerebbe di stoltezza, perché vedrebbe
d'avere attribuito a lei più di quanto conviene concedere a una mortale.