mercoledì 20 gennaio 2016

Pirandello: le due premesse da Il fu Mattia Pascal

da Il fu Mattia Pascal
Premessa
Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
- Grazie, caro. Questo lo so.
- E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio d'un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.
E allora?
Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.
Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. E' ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l'indole e le abitudini de' suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l'amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de' miei concittadini: Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz'alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.
Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d'ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l'antica speranza della buon'anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l'obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant'anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte.
Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda... sentirete.
 
Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa
L'idea o piuttosto, il consiglio di scrivere mi è venuto dal mio reverendo amico don Eligio Pellegrinotto, che al presente ha in custodia i libri della Boccamazza, e al quale io affido il manoscritto appena sarà terminato, se mai sarà.
Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene dalla lanterna lassù, della cupola; qua, nell'abside riservata al bibliotecario e chiusa da una bassa cancellata di legno a pilastrini, mentre don Eligio sbuffa sotto l'incarico che si è eroicamente assunto di mettere un po' d'ordine in questa vera babilonia di libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima di lui s'era curato di sapere, almeno all'ingrosso, dando di sfuggita un'occhiata ai dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse donato al Comune: si riteneva che tutti o quasi dovessero trattare di materie religiose. Ora il Pellegrinotto ha scoperto, per maggior sua consolazione, una varietà grandissima di materie nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presi di qua e di là nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, la confusione è indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi libri amicizie oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, ad esempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenzioso Dell'arte di amar le donne libri tre di Anton Muzio Porro, dell'anno 1571, una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che taluni chiamano beato, biografia edita a Mantova nel 1625. Per l'umidità, le legature de' due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel libro secondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avventure monacali.
Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampicato tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali della biblioteca, Ogni qual volta ne trova uno, lo lancia dall'alto, con garbo, sul tavolone che sta in mezzo; la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere si leva, da cui due o tre ragni scappano via spaventati: io accorro dall'abside, scavalcando la cancellata; do prima col libro stesso la caccia ai ragni su pe'l tavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a leggiucchiarlo.
Così, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture. Ora don Eligio mi dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sul modello di questi ch'egli va scovando nella biblioteca, aver cioè il loro particolar sapore. Io scrollo le spalle e gli rispondo che non è fatica per me. E poi altro mi trattiene.
Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a prendere una boccata d'aria nell'orticello che ha trovato modo di far sorgere qui dietro l'abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni.
- Eh, mio reverendo amico, - gli dico io, seduto sul murello, col mento appoggiato al pomo del bastone, mentr'egli attende alle sue lattughe. - Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!
- Oh oh oh, che c'entra Copernico! - esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
- C'entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava...
- E dàlli! Ma se ha sempre girato!
- Non è vero. L'uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. L'ho detto l'altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m'ha risposto? ch'era una buona scusa per gli ubriachi. Del resto, anche voi scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermò il Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l'uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d'oziosi particolari. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m'avete insegnato, che la storia doveva esser fatta per raccontare e non per provare?
- Non nego, - risponde don Eligio, - ma è vero altresì che non si sono mai scritti libri così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari, come dacché, a vostro dire, la Terra s'è messa a girare.
- E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise... La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola... Teresina si moriva di fame... Lucrezia spasimava d'amore... Oh, santo Dio! e che volete che me n'importi? Siamo o non siamo su un'invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po' più di caldo, ora un po' più di freddo, e per farci morire - spesso con la coscienza d'aver commesso una sequela di piccole sciocchezze - dopo cinquanta o sessanta giri? Copernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quel piccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d'impazienza, e ha sbuffato un po' di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchie migliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?
Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che per quanti sforzi facciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l'uomo si distrae facilmente.
Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario, non fa accendere i lampioni, e spesso - se è nuvolo - ci lascia al bujo.
Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna non stia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e le stelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili.
Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per la stranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi sarà possibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.
Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo ora in una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuori della vita, e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta.
Cominciamo.

lunedì 11 gennaio 2016

La problematica successione ad Augusto, da Tiberio a Nerone

La dinastia Giulio-Claudia e il problema del principato
  
Se è vero che il principato nasce come esigenza di adeguare la forma del potere alla realtà di uno Stato che ormai non è più limitato a Roma e all’Italia, ma comprende un territorio molto ampio e le province più diverse, ecco spiegato perché già Augusto, pur nel rispetto formale delle libertà repubblicane, aveva consentito che si formasse un alone di sacralità attorno alla sua persona: dallo stesso titolo di Augustus, al culto del padre defunto (divus Iulius) e del Genius del principe. Solo una simile figura può porsi al di sopra delle parti, essere garanzia di unità dell’impero, punto di riferimento per tutti (laddove il vecchio senato repubblicano rappresentava gli interessi ristretti dell’aristocrazia romana, o al massimo italica).
Insomma, il potere del princeps dev’essere sostanziale, e non paravento del potere del senato. Quindi lo scontro col senato diventa inevitabile: ecco perchè la cultura di ispirazione senatoria (Tacito e Svetonio per tutti) si accanisce tanto con gli imperatori della dinastia giulio-claudia, presentandoli come ipocriti (Tiberio), deficienti (Claudio), pazzi (Caligola), sanguinari (Nerone). In realtà si tratta del fatto che costoro intendono affermare il potere del princeps: Tiberio (14-37) non vorrebbe, ma è costretto dalla storia (si riaprirebbe altrimenti lo scontro fra le diverse classi, fra le diverse ambizioni, fra i diversi interessi delle diverse parti dell’impero); nel caso di Caligola (37-41), accentuando il carattere sacro della sua figura (desunto dalla concezione orientale della monarchia) ed assumendone i relativi riti (προσκύνησιϛ, o prostrazione, bacio del piede, ἱερὸς γάμος, o matrimonio sacro, con la sorella Drusilla; e nominare senatore il proprio cavallo voleva dire, nel compiere un atto provocatorio contro il senato, marcare la fine dell’età repubblicana); nel caso di Claudio (41-54), attraverso l’utilizzazione dei liberti (che rispondono solo a lui) per l’amministrazione; nel caso di Nerone (54-69) (almeno per quanto riguarda il secondo tempo del suo governo, a cominciare dal 58), riprendendo la concezione orientaleggiante di Caligola ed adottando una politica finanziaria che favorisce le province (elimina i dazi per le merci importate, favorendo un abbassamento del costo della vita - ma nel contempo sacrificando la produzione italica, che non resiste alla concorrenza) e i ceti meno abbienti (riduce di 1/12 il peso del denarius d’argento, mantenendone lo stesso valore, ed obbliga i detentori di capitale ad accettare il pagamento dei debiti in tali pezzi, di valore intrinseco ridotto).
Quanto mai problematica la successione ad Augusto, e quanto mai intricate (per incroci di parentela) le vicende di successione della dinastia giulio-claudia.
Tiberio era stato adottato da Augusto, dopo che questi, privo di figli maschi, aveva dovuto rinunciare ad una serie di successori designati (era morto Marcello, figlio della sorella Ottavia[1]; erano morti Gaio e Lucio, figli della propria figlia Giulia[2] e di Agrippa, da sempre suo grande collaboratore, politico e militare), e quindi ripiegare su una successione “claudia” (Tiberio e Druso gli erano figliastri, in quanto figli della sua terza moglie, Livia, e del di lei primo marito, Tiberio Claudio Nerone); morto Druso (nel 9, mentre conduceva trionfalmente le campagne in Germania), non restava che Tiberio, cui però Augusto impose di adottare a sua volta Germanico, figlio di Druso.
Il dramma di Tiberio (all’origine dei suoi tentennamenti, sinceri, e non ipocriti come li giudicherà Tacito) consisté nel fatto che da una parte sentiva, lui, discendente della nobilissima gens Claudia, di appartenere alla classe senatoria (e quindi, di doverne difendere la libertas), dall’altra, se voleva essere princeps (come lo stato delle cose richiedeva), doveva per forza conculcare quella libertas. Voleva considerare il principato come una magistratura straordinaria, e non come il punto di arrivo di un secolo di lotte, dai Gracchi al secondo Triumvirato. Rinunciò ad ogni onore divino, ai titoli di Imperator e di pater patriae; fu incerto se accettare di essere chiamato Augustus. Ma tutto ciò non faceva che togliere prestigio e carisma alla sua funzione; per cui poi, per riaffermarla, dovette ricorrere a misure repressive: così si spiega il rafforzamento delle coorti pretorie e l’affidamento di grande potere al prefetto Elio Seiano (Tiberio lo lasciò addirittura arbitro di Roma, ritirandosi a Capri nel 26; e Seiano imperversò, con condanne per lesa maestà, finché lo stesso Tiberio lo fece condannare a morte nel 30).
Intanto Germanico era morto in circostanze poco chiare (era figlio, oltre che di Druso, di Antonia minore, figlia del Triumviro; e, come il nonno, aveva già dato segni di predilezione per una concezione orientaleggiante della monarchia): mandato in Asia, dopo i trionfi in Germania, era stato avvelenato, si disse, per incarico dell’invidioso Tiberio. Morì anche Druso minore, figlio di Tiberio (Seiano gli fece propinare del veleno). Come eredi non restavano che Gaio (figlio di Germanico, quindi nipote di Druso e bis-nipote di M. Antonio per parte di madre) e Tiberio Gemello (figlio di Druso minore, e quindi nipote dell’imperatore). Quest’ultimo però era troppo giovane, e quando Tiberio morì gli successe Gaio, detto Caligola o “sandaletto” (così lo chiamavano affettuosamente i soldati che l’avevano visto bambino nell’accampamento al seguito del padre, il leggendario Germanico): subito fece mettere a morte il concorrente, Tiberio Gemello.
Caligola, in quanto figlio di Germanico, al pari di Claudio (di Germanico era fratello, e quindi era zio di Caligola) che gli succederà, hanno “nel sangue” la predisposizione di Antonio alla monarchia di tipo orientale. Stessa cosa può dirsi di Nerone, sia da parte di padre (Cn. Domizio, figlio di Antonia maggiore), sia da parte di madre (Agrippina minore, nipote di Antonia minore, in quanto figlia di Germanico, quindi sorella di Caligola e nipote di Claudio[3]).
Il Triumviro sconfitto in vita si prendeva una rivincita postuma, attraverso la sua discendenza.


 


[1]L’aveva avuto dal primo marito, Caio Marcello, poi era andata sposa a Marco Antonio, da cui ebbe due figlie, Antonia maggiore (che sarà madre di Cn. Domizio, padre di Nerone) e Antonia minore (che sarà moglie di Druso, e quindi madre di Germanico e di Claudio).
 
[2]Giulia, figlia di Scribonia (seconda moglie di Augusto, da lui ripudiata subito dopo il parto; la prima era stata Clodia, figlia del famoso Clodio, e la terza sarà Livia), era stata sposata, prima al cugino Marcello, poi ad Agrippa; quindi, morto anche costui, andrà sposa a Tiberio (ma il padre, per la sregolatezza dei suoi costumi, la relegherà nell’isola di Pandataria, e poi a Reggio, dove morirà).
 
[3]Di quest’ultimo, per altro, Agrippina fu l’ultima di quattro mogli; ed a lui - zio e marito - impose l’adozione del proprio figlio Nerone.

domenica 10 gennaio 2016

Manzoni: Marzo 1821

MARZO 1821
 
Ode
all'illustre memoria
di
Teodoro Koerner
poeta e soldato
della indipendenza germanica
morto sul campo di Lipsia
il giorno XVIII d'ottobre MDCCCXIII
nome caro a tutti i popoli
che combattono per difendere
o per riconquistare
una patria
 
         1         Soffermati sull'arida sponda,
         2   volti i guardi al varcato Ticino,
         3   tutti assorti nel novo destino,
         4   certi in cor dell'antica virtù
         5   han giurato: non fia che quest'onda
         6   scorra più tra due rive straniere:
         7   non fia loco ove sorgan barriere
         8   tra l'Italia e l'Italia, mai più!
         9        L'han giurato: altri forti a quel giuro
        10   rispondean da fraterne contrade,
        11   affilando nell'ombra le spade
        12   che or levate scintillano al sol.
        13   Già le destre hanno strette le destre;
        14   già le sacre parole son porte:
        15   o compagni sul letto di morte,
        16   o fratelli su libero suol.
        17        Chi potrà della gemina Dora,
        18   della Bormida al Tanaro sposa,
        19   del Ticino e dell'Orba selvosa
        20   scerner l'onde confuse nel Po;
        21   chi stornargli del rapido Mella
        21   e dell'Oglio le miste correnti,
        23   chi ritogliergli i mille torrenti
        24   che la foce dell'Adda versò,
        25        quello ancora una gente risorta
        26   potrà scindere in volghi spregiati,
        27   e a ritroso degli anni e dei fati,
        28   risospingerla ai prischi dolor:
        29   una gente che libera tutta,
        30   o fia serva tra l'Alpe ed il mare;
        31   una d'arme, di lingua, d'altare,
        32   di memorie, di sangue e di cor.
        33        Con quel volto sfidato e dimesso,
        34   con quel guardo atterrato ed incerto,
        35   con che stassi un mendico sofferto
        36   per mercede nel suolo stranier,
        37   star doveva in sua terra il Lombardo;
        38   l'altrui voglia era legge per lui;
        39   il suo fato, un segreto d'altrui;
        40   la sua parte, servire e tacer.
        41        O stranieri, nel proprio retaggio
        42   torna Italia, e il suo suolo riprende;
        43   o stranieri, strappate le tende
        44   da una terra che madre non v'è.
        45   Non vedete che tutta si scote,
        46   dal Cenisio alla balza di Scilla?
        47   non sentite che infida vacilla
        48   sotto il peso de' barbari piè?
        49        O stranieri! sui vostri stendardi
        50  sta l'obbrobrio d'un giuro tradito;
        51   un giudizio da voi proferito
        52   v'accompagna all'iniqua tenzon
        53   voi che a stormo gridaste in quei giorni:
        54   Dio rigetta la forza straniera;
        55   ogni gente sia libera, e pera
        56   della spada l'iniqua ragion.
        57        Se la terra ove oppressi gemeste
        58   preme i corpi de' vostri oppressori,
        59   se la faccia d'estranei signori
        60   tanto amara vi parve in quei dì;
        61   chi v'ha detto che sterile, eterno
        62   saria il lutto dell'itale genti?
        63   chi v'ha detto che ai nostri lamenti
        64   saria sordo quel Dio che v'udì?
        65        sì, quel Dio che nell'onda vermiglia
        66   chiuse il rio che inseguiva Israele,
        67   quel che in pugno alla maschia Giaele
        68   pose il maglio, ed il colpo guidò;
        69   quel che è Padre di tutte le genti,
        70   che non disse al Germano giammai:
        71   va, raccogli ove arato non hai;
        72   spiega l'ugne; l'Italia ti do.
        73        Cara Italia! dovunque il dolente
        74   grido uscì del tuo lungo servaggio;
        75   dove ancor dell'umano lignaggio,
        76   ogni speme deserta non è
        77   dove già libertade è fiorita,
        78   dove ancor nel segreto matura,
        79   dove ha lacrime un'alta sventura
        80   non c'è cor che non batta per te.
        81        Quante volte sull'Alpe spiasti
        82   l'apparir d'un amico stendardo!
        83   quante volte intendesti lo sguardo
        84   ne' deserti del duplice mar!
        85   ecco alfin dal tuo seno sboccati,
        86   stretti intorno a' tuoi santi colori,
        87   forti, armati de' propri dolori,
        88   i tuoi figli son sorti a pugnar.
        89        Oggi, o forti, sui volti baleni
        90   il furor delle menti segrete:
        91   per l'Italia si pugna, vincete!
        92   il suo fato sui brandi vi sta.
        93   O risorta per voi la vedremo
        94   al convito de' popoli assisa,
        95   o più serva, più vil, più derisa,
        96   sotto l'orrida verga starà.
        97        Oh giornate del nostro riscatto!
        98   oh dolente per sempre colui
        99   che da lunge, dal labbro d'altrui,
       100   come un uomo straniero, le udrà!
       101   che a' suoi figli narrandole un giorno,
       102   dovrà dir sospirando: io non c'era;
       103   che la santa vittrice bandiera
       104   salutata quel dì non avrà.