domenica 12 luglio 2015

Il Caffè e la caffetteria


Il Caffè come spazio della cultura illuminista
 

A. FONTANA, J.L. FOURNEL, Piazza, Corte, Salotto, Caffè,
in Letteratura italiana, vol. 5, Einaudi 1986, pp. 671-686.

 
Il periodico Il Caffè (esce ogni dieci giorni fra il 1764 e il 1766) ha come modello i periodici inglesi di Addison e Steele, The Spectator  e The Tatler  (il chiacchierone), e deve il suo nome al fatto che si presenta come punto di raccolta delle discussioni tenute presso il caffè gestito dal greco Demetrio.

Il caffè appare dunque come il nuovo luogo dove, in età illuminista, si produce cultura. Adempie a quella funzione che nel Medioevo era stata della piazza (sede di cerimonie religiose, cosiccome di attività politica ed economica), nel Rinascimento della corte (dove si elaborano i modelli ideali di quella società), nel primo Settecento del salotto (spazio chiuso, con al centro una figura femminile; nel salotto di Cristina di Svezia sorge l’Arcadia).

Il caffè (la caffetteria, il luogo dove si serve la bevanda, che arriva in Europa nella prima metà del Seicento dall’Arabia e dalla Turchia; ad essa vengono attribuite virtù salutari: favorisce la riflessione e la chiarezza di idee) è uno spazio aperto e pubblico (a differenza della corte e del salotto, spazi chiusi e privati), luogo di incontro e di discussione: quindi luogo privilegiato per gli intellettuali illuministi[1], che di tutti i problemi (sociali, politici, culturali) vogliono discutere e a un pubblico ampio, non specialistico, vogliono rivolgersi. Il caffè è una “manifattura dello spirito”[2], dove il sapere circola secondo la logica del “flusso e riflusso” (le idee scaturiscono dallo scambio di notizie, da un continuo movimento fra interno ed esterno, caffè e mondo); non è un archivio del sapere, al modo del sapere istituzionalizzato della corte e dell’Accademia, ma una fabbrica di opinioni (che si avvale della testimonianza diretta degli avventori) su ogni argomento di interesse sociale e culturale (e tale vuole essere la funzione delle gazzette e dei periodici).

  



[1]Montesquieu nelle Lettere persiane fa dire a Usbek (ipotetico viaggiatore persiano in Europa) che a Parigi c'è una bottega dove si prepara un caffè "che dà nello spirito a chi ne fa uso". Qualcosa di analogo dice Gaspare Gozzi nell'Osservatore veneto, e Goldoni dedicherà una delle sue più note commedie a La bottega del caffè.
[2]Diderot e D'Alembert nell'Enciclopedia: "I caffè sono anche manifatture dello spirito, sia buone che cattive".

L'illuminismo in Italia


L’illuminismo in Italia
 

A. Asor Rosa, Storia della lett. Italiana,
La Nuova italia, 1985, pp. 342-351.


Nella seconda metà del sec. XVIII in Italia abbiamo un periodo di pace (la pace di Aquisgrana, del 1748, alla fine delle guerre di successione spagnola, polacca ed austriaca, ha determinato l’emarginazione della Spagna e l’inizio dell’egemonia austriaca) che favorisce l’azione riformatrice degli Asburgo in Lombardia, dei Borboni a Napoli e Parma, dei Lorena (Asburgo) in Toscana.[1]

Il movimento riformatore ha a che fare con una legislazione confusa (per quanto concerne i rapporti fra Stato e sudditi, fra potere centrale e poteri locali di feudatari, clero e corporazioni; per quanto riguarda i sistemi di accertamento della rendita e di tassazione) e quindi si promuovono razionalizzazioni in questo senso[2]; ci sono poi i privilegi ecclesiastici (manomorta, esenzione da tasse, monopolio dell’istruzione) e quindi si lotta per affermare l’autorità dello Stato sulla Chiesa (giurisdizionalismo) e sottrarre l’insegnamento ai gesuiti[3]; ci sono inoltre consistenti residui di potere feudale nelle campagne e un conseguente scarso sviluppo delle attività economico-produttive (quindi si promuovono bonifiche e ammodernamenti tecnologici).[4]

Gli intellettuali sono disponibili per quest’opera di riforme come funzionari statali. Sono, ancora (come sempre), gruppi piuttosto ristretti e provengono dalla aristocrazia (un’economia mercantile è in ritardo, e quindi manca la nuova classe; sono allora i settori avanzati dei vecchi ceti a cercare di razionalizzare le strutture, appoggiandosi al sovrano illuminato). Organizzati in Accademie (dei Pugni a Milano) si rivolgono sia al potere costituito sia all’opinione pubblica (ma le classi subalterne, vedi il Sud, sono analfabete) attraverso nuovi mezzi di comunicazione (il giornale-rivista con interessi polivalenti: vedi Il Caffè). Il ritardo della borghesia capitalista si avverte sia nel pensiero economico (che resta al di qua del mercantilismo, per una linea protezionista)[5] sia nel pensiero etico-politico[6]. Circa la letteratura, viene messo l’accento sulla sua natura civile ed utilitaria; ma c’è anche l’assimilazione del sensismo che pone la sensazione alla base del giudizio estetico: quindi si teorizza una forma piacevole unita ad un contenuto utile e vero[7]. Il pensiero giuridico ha il suo capolavoro in Dei delitti e delle pene  di C. Beccaria (1764).

 

 



[1]Restano fuori dal movimento di riforme Venezia, lo Stato dei Savoia, quello Pontificio, il ducato di Modena, le repubbliche di Genova e Lucca.
[2]Ad esempio, in Lombardia si redige il nuovo catasto di tutto lo Stato.
[3]La Compagnia di Gesù viene addirittura soppressa nel 1773.
[4]In Lombardia si creano le prime manifatture; ma nel meridione la feudalità latifondista resta dominante nelle campagne, con relativa arretratezza.
[5]P. Verri, Meditazioni sull'economia politica; F. Galiani, Trattato della moneta.
[6]Sia in Muratori che in P. Verri si ritrova una posizione di matrice cattolica, secondo cui il concetto di felicità, di bene privato, è subordinato a quello di bene pubblico (manca l'ideologia dell'individualismo-antagonismo borghesi).
[7]P. Verri, Pensieri sullo spirito della letteratura in Italia; C. Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile; G. Parini, Discorso sopra la poesia.

Sull'illuminismo


Caratteri generali dell’illuminismo

 
“Il nostro secolo è particolarmente il secolo della ragione, alla quale tutto deve sottomettersi. La religione con l’allegare la sua santità, la legislazione con l’allegare la sua maestà, vogliono di solito sfuggirvi; ma allora esse eccitano contro di sé dei giusti sospetti e non possono pretendere quella giusta stima che la ragione accorda solo a ciò che ha potuto sostenere il suo libero e pubblico esame.” (Kant, Critica della ragion pura , 1781).

Illuminismo è quel movimento di cultura che si ripromette di illuminare il mondo con la luce della ragione; di mettere in discussione tutto ciò che è accettato per forza di autorità, antichità, fede. Ciò comporta fiducia nell’avvenire, bonificato dalla ragione.

Si tratta dell’ideologia di quella classe (la borghesia capitalista) che sta per travolgere il potere politico dell’aristocrazia e del clero. La sua patria è la Francia, anche se è evidente l’appartenenza ad una tradizione che va dalla “rivoluzione” scientifica di F. Bacone (1561-1626), Galilei (1564-1642), Newton (1642-1727) all’empirismo inglese di Locke (1632-1704), Berkeley (1685-1753), Hume (1711-1766).

Voltaire (1694-1778) polemizza contro la superstizione, l’intolleranza, l’arbitrio. Diderot (1713-1784) e D’Alembert (1717-1783), attraverso l’Enciclopedia, mettono in atto una colossale impresa di revisione critica di tutto lo scibile. Montesquieu (1689-1755) teorizza la divisione dei tre poteri, su cui si modelleranno gli Stati liberali. Rousseau (1712-1778) teorizza lo Stato come prodotto di contratto sociale e non di investitura divina[1].

I nuovi intellettuali (philosophes) sentono di appartenere, per mentalità, alla nuova classe borghese (anche se, per nascita, possono essere aristocratici), di dovere essere divulgatori della cultura (boom dell’editoria) e addirittura uomini di Stato. Insomma non sono più legati ad una corte (stipendiati da un principe), ma sono interpreti degli interessi di una classe (produttiva, progressiva). Non a caso, accanto al “filosofo”, l’ideale umano del secolo è il mercante, utile alla società, produttore e non parassita.

 



[1]La sua esaltazione dello "stato di natura" non è negazione della Ragione, ma riconoscimento che l'uomo ha subito, nel corso della storia, un processo di alienazione (nel mondo feudale-aristocratico) e che si tratta di "disalienarlo" attraverso una battaglia politica e culturale. Quindi, non sospiri e nostalgie romantiche per il passato, ma battaglia per trasformare il presente. Lo stesso si dica per il "sentimento", che in R. è veramente un fatto borghese e rivoluzionario, perché nega il modello umano dominante sin dal Rinascimento: quello del "cortegiano", autocontrollato, artificioso, innaturale.

sabato 11 luglio 2015

Il neoclassicismo

 

 



Il neoclassicismo

 

Il ritorno a un gusto classicista, nella seconda metà del sec. XVIII, si spiega come reazione all’eccessiva artificiosità del barocco e del rococò.

Tale gusto si determina poi, più precisamente (e questo, soprattutto in relazione all’avvio degli scavi archeologici di Ercolano e Pompei, fra il 1737 e il 1748), come ammirazione per le forme dell’arte classica. Ed è un’ammirazione che si ripercuote anche nel costume: basti pensare all’abbigliamento e alle acconciature femminili in età napoleonica, o ai continui richiami a figure della romanità, prima repubblicana e poi imperiale (Bruto, i Gracchi; Cesare, Augusto, ecc.), tipici dell’oratoria politica (ma anche della pittura: si pensi a David) nell’età che va dalla rivoluzione alla costituzione dell’Impero.
David: Il giuramento degli Orazi

David: Le Sabine


Alla definizione di una poetica neo-classica concorrono il pittore A. Raphael Mengs (1728-1779: boemo, soggiornerà a lungo a Roma, diventerà pittore di corte a Madrid), il letterato G. E. Lessing (1729-1781: autore di due opere fondamentali, Laocoonte[1]e Drammaturgia amburghese), il teorico Francesco Milizia (1725-1798: di Brindisi, soggiornerà a Roma) e, soprattutto, lo storico dell’arte Johann Joachim Winckelmann (1717-1768: nato in Prussia, soggiornerà a lungo in Italia, particolarmente a Roma, morirà assassinato a Trieste, presumibilmente da un “ragazzo di vita”)[2].

E’ appunto Winckelmann che, suggestionato dalla vista delle statue greche (che lui presumeva di vedere in Italia, visto che in Grecia non andò mai), teorizza un ideale di bellezza assoluta, concretizzatosi nell’arte greca classica del quinto e quarto sec. a. C., ma metastorico e quindi sempre da ricercarsi: si tratta di una bellezza fondata sull’armonia e l’equilibrio formale, da cui si sprigiona una “nobile semplicità” e una “quieta grandezza” (edle Einfalt und stille Größe); è una bellezza come imperturbabilità, in quanto si realizza attraverso il dominio delle passioni (che esistono, ma che sono sottomesse ad un’armonia superiore: il modello per eccellenza è il gruppo del Laocoonte),
 
Gruppo del Laocoonte
Gruppo del Laocoonte
 
nonchè attraverso il superamento, in nome dell’universale, di ciò che è eccessivamente individualizzante (anche nei caratteri sessuali: il modello per eccellenza è l ’Apollo del Belvedere, non a caso una figura androgina).

Apollo del Belvedere
Apollo del Belvedere


Il concetto di imperturbabilità è espresso più volte attraverso paragoni con il mare[3], con l’acqua quello di mancanza di individuazione[4].

Va detto che si trattava di una idealizzazione dell’arte greca, sostenuta non da una conoscenza diretta, ma dalla conoscenza di copie romane (tale è l’Apollo del Belvedere) o di opere non classiche (il Laocoonte è di età ellenistica, I sec. a. C.); al punto che si scambiavano la forza e la vivacità espressiva degli originali per grossolanità (è sintomatico che dei discepoli di Winckelmann si rifiutassero ostinatamente di avallare l’acquisto dei marmi fidiaci strappati al Partenone da Lord Elgin, ritenendoli indegni di colui che la tradizione esaltava come il più grande scultore greco). Una idealizzazione che avrebbe dovuto fare i conti sia con la tesi di Nietzche, secondo cui non solo il sentimento apollineo (e quindi di armonia) ma anche quello dionisiaco (e quindi tragico) è presente nello spirito e nell’arte greca; sia con la scoperta di statue quali i bronzi di Riace, in cui la individuazione sessuale non è certamente debole. 






[1]Partendo dall’esegesi del gruppo ellenistico del Laocoonte (che pone il problema della passione nell’arte, lì perfettamente dominata), valorizza la superiorità della poesia, in quanto questa può esprimere azioni, sentimenti, passioni (di quanto la vita supera il quadro, di tanto la poesia supera la pittura).
[2]Il suo capolavoro è la Storia dell’arte dell’antichità  (1763-64).
[3]La generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza (edle Einfalt und stille Größe), sia nella posizione che nell’espressione. Come la profondità del mare che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, così l’espressione delle figure greche, per quanto agitate da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata. Quest’anima, nonostante le più atroci sofferenze, si palesa nel volto del Laocoon­te, e non solo nel volto. Il dolore che traspare in tutti i muscoli e i tendini del corpo e che, al solo guardare il ventre convulsamente contratto, senza badare né al viso né alle altre parti, quasi crediamo di sentire noi stessi, questo dolore, dico, non si esprime affatto con segni di furore nel volto o nella posizione. Il Laocoonte non grida orribilmente come nel canto di Virgilio: il modo in cui la bocca è aperta non lo consente; piuttosto ne può uscire un sospiro un sospiro angosciato e represso. Il dolore del corpo e la grandezza dell’anima sono distribuiti con eguale intensità nell’intera struttura della statua e sembrano tenersi in equilibrio. Laocoonte soffre, ma soffre come il Filottete di Sofocle: il suo patire ci tocca il cuore, ma noi desidereremmo sopportare il dolore come la sopporta quest’uomo sublime” (Il bello nell’arte, TO 1953, pp. 30-31). O anche: “Gli artisti troveranno nella giovinezza... le sorgenti del bello, cioè l’unità, la varietà e l’armonia, assomigliandosi, per così dire, le forme giovanili alla superficie del mare, che, veduto a qualche distanza, sembra terso e tranquillo come uno specchio, sebbene di fatto sia sempre in moto, e volga incessantemente le sue onde... Una bella figura giovanile sembra tersa, uguale ed uniforme, eppure vi si fanno in un punto mille cangiamenti”.
[4] “Il bello è come l’acqua, la quale tanto è migliore, quanto ha meno gusto”.

lunedì 6 luglio 2015

Svevo: il finale di Senilità


Il finale di Senilità
 

G. BALDI, ecc., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, vol. III**
Paravia, 1994, pp. 306-308.


Conclusa l’avventura con Angiolina, Emilio ritorna alla stato di “senilità” (“ne visse come un vecchio del ricordo della gioventù”), cioè ritorna al punto di partenza, alla sua inettitudine di “letterato ozioso”: al contrario di quel che succede nei romanzi di formazione, Emilio non ha imparato nulla. La stessa “metamorfosi strana” che Angiolina subisce nel ricordo di Emilio indica la realizzazione di un desiderio che percorre tutto il romanzo: la donna-sesso (Angiolina) e la donna-madre (Amalia) sono ora unite (ora che sono l’una morta e l’altra fuggita con il cassiere infedele di una banca), assecondando la volontà di Emilio di idealizzare una realtà volgare, di trasfigurare in un’immagine di purezza ciò che invece appartiene alla materialità del sesso (come ha sempre fatto, da inetto che, incapace di fronteggiare la realtà, si risarcisce con il sogno).

Peraltro, Angiolina che guarda verso l’orizzonte rosseggiante, diventa anche simbolo del socialismo: ma anche in questo caso è evidente che Emilio continua a mentire a se stesso (a risarcirsi con il sogno), visto che la ragazza si era dimostrata assolutamente estranea ed ostile alle idee socialiste, quando Emilio aveva cercato di spiegargliele.

La tecnica narrativa rivela anche qui la distanza critica del narratore (ovvero, dell’autore) rispetto al suo personaggio: la metamorfosi è definita “strana” e propria della mente di un “letterato ozioso”; del resto lungo tutto il romanzo il narratore ha ironizzato sul “pedante solitario” che chiama Ange quella donna ignorante, amante dei piaceri sessuali, dei formaggi, delle mortadelle e del buon vino (e che il Balli, che se ne intende, più appropriatamente chiama Giolona); e quindi, ancora, non può non essere risibile l’immagine di lei con “l’occhio limpido e intellettuale”, collocata “come su un altare, la personificazione del pensiero e del dolore” .

Rivelatrice è infine la frase conclusiva: il tempo presente dei verbi dimostra che si tratta di un intervento della voce narrante e non di un indiretto libero (ci sarebbe voluto l’imperfetto); ed è quindi l’autore che si prende gioco dell’ultima mistificazione di Emilio, fa la parodia del suo pensiero: già con gli esclamativi (“Sì! Angiolina pensa e piange!”), poi con l’immagine di lei che piange “come se nel vasto mondo non avesse più trovato neppure un Deo gratias qualunque”, alludendo maliziosamente al fatto che la ragazza tuttalpiù può piangere perché non trova neppure un’avventura occasionale (così lei aveva definito un tale incontrato per strada e da cui si era fatta accompagnare).

 

 

Svevo: la tecnica narrativa in Senilità


La tecnica narrativa in Senilità

 
G. BALDI, ecc., Dal testo alla storia, dalla storia al testo, vol. III**
Paravia, 1994, pp. 279-281; pp. 296-298.


La narrazione è in terza persona, ma il romanzo è focalizzato sul protagonista, i fatti sono filtrati sistematicamente attraverso la sua coscienza. Ma poiché costui è portatore di una falsa coscienza (e il suo punto di vista è inattendibile), il narratore esterno interviene più volte, anche con modi provocatori, per correggerlo, smentirlo, smascherarlo.

Abbiamo quindi due prospettive: quella di Emilio, che mente a se stesso, e quella del narratore, che denuncia la menzogna. A volte lo dice apertamente (egli mentiva...), a volte lo smascheramento è affidato all’ironia, a un semplice aggettivo od avverbio rivelatore (In passato egli aveva vagheggiato delle idee socialiste, naturalmente senza mai muovere dito per attuarle: quel naturalmente denuncia l’inettitudine di Emilio). Un altro procedimento usato è quello di riportare, senza commenti, il pensiero di Emilio (ad esempio, attraverso il discorso indiretto libero), lasciando che sia lo stridente contrasto con la realtà oggettiva a svelarne la ridicola inadeguatezza (In compenso dell’amore che ne riceveva, egli non poteva darle che una cosa soltanto: la conoscenza della vita, l’arte di approfittarne. Anche il suo era un dono preziosissimo, perché con quella bellezza e quella grazia, diretta da persona abile come era lui, avrebbe potuto essere vittoriosa nella lotta per la vita: la convinzione di Emilio di essere abile ed esperto della vita, si scontra con l’immagine che già abbiamo di lui, quella di un uomo, al contrario, timoroso della vita, tutt’altro che vincente).

Questi procedimenti sono in atto nelle pagine iniziali. Anzi, proprio nell’incipit, ci scontriamo con due livelli di menzogna da parte del protagonista: uno consapevole (dice di desiderare una relazione non compromettente per amore di lei; ma il narratore ci avverte che, se fosse stato sincero, avrebbe detto: “per me non sarai che un giocattolo. Ho altri doveri io, la mia carriera, la mia famiglia”) ed uno inconsapevole (ma subito brutalmente svelato dal narratore, che ironizza sia sulla famiglia sia sulla carriera, anche attraverso diminutivi sprezzanti: impieguccio, famigliuola, riputazioncella). Successivamente, nella rappresentazione di Angiolina, riconosciamo ancora il punto di vista deformante di Emilio (come discorso indiretto libero); idealizza secondo schemi letterari la figura della donna (il volto illuminato dalla vita..., tanto oro..., raggiante di gioventù e bellezza..., quel profilo sorprendentemente puro..., ecc.), che certo non corrisponde a quella idealizzazione, come si preoccupa di farci capire il narratore (non solo con un giudizio secco - ai retori corruzione e salute sembrano inconciliabili - ma anche lasciandoci intravedere nell’occasione dell’incontro - l’ombrellino caduto ed impigliatosi nel suo vestito - la malizia della donna navigata).

domenica 5 luglio 2015

Caratteri del romanticismo francese


Il romanticismo francese
 

R. WELLEK, Storia della critica moderna, III
Il Mulino, 1961 (1955), pp. 281 e segg.
V. L. SAULNIER, Storia della lett. francese,
Einaudi, 1964, pp. 466-67, 487.
 

A differenza di Inghilterra e Germania, dove la tradizione classica era meno radicata, in Francia (cosiccome in Italia) certi caratteri del romanticismo (la rivolta contro le regole, il privilegiamento delle componenti irrazionali) si presentano in termini più moderati, e meno vistosa è la frattura con la cultura precedente.

Del 1802 è Génie du Christianisme di Chateaubriand (1768-1848), vera e propria apologia sentimentale ed estetica della religione cristiana, contro l’ateismo e lo scetticismo settecenteschi (e per questo ottenne il plauso della generazione che aveva sperimentato la delusione rivoluzionaria): vi si esalta - oltre al valore morale del cristianesimo - il bello cristiano in quanto più ricco e profondo del bello pagano (l’Adamo di Milton è più "maestoso e nobile” dell’Ulisse di Omero); all’opera erano aggiunti due brevi romanzi, Atala (che narra la vicenda d’amore di due indiani della Luisiana) e René (che narra la vicenda, velatamente autobiografica, di un personaggio malinconico ed inquieto che va a cercare la pace nella solitudine, fra la natura incontaminata della Luisiana): entrambi, per il gusto dell’esotico e del malinconico, incontrarono il gusto delle generazioni romantiche.

Ma la prima data significativa, per quanto riguarda il riferimento consapevole al romanticismo, è il 1810, anno di pubblicazione dell’opera della M.me de Stael (1766-1817), De l’Allemagne  (subito sequestrato dalla polizia napoleonica, fu pubblicato in Inghilterra nel 1813, e quindi in Francia nel 1814, dopo la caduta di Napoleone): vi si stabilisce la famosa antitesi tra letterature del sud o mediterranee (classiche, caratterizzate da paganesimo, serenità, contorni netti, compiutezza) e letterature del nord (romantiche, caratterizzate da cristianesimo, indefinitezza, fantasticheria malinconica); e vi si esalta la genialità di grandi letterati e filosofi tedeschi (Goethe, Schiller, gli Schlegel, ecc.).

Infine va ricordata la prefazione di V. Hugo (1802-85) al Cromwell (1827): vi si sostiene (stravolgendo in maniera discutibile l’impostazione di Vico) la legge delle tre età, per cui dopo l’età lirica (la Genesi) e l’età epica (Omero), l’età moderna è quella del dramma (Shakespeare); solo il dualismo cristiano, il conflitto tra corpo e anima, rende possibile il dramma; e il dramma, poesia completa, unisce, come la vita, grottesco e sublime; non ci sono regole né modelli da rispettare, e in particolare non c’è giustificazione (come per Manzoni) per le unità drammatiche di tempo e di luogo.

 

Caratteri del romanticismo inglese


Il romanticismo inglese

 
R. WELLEK, Storia della critica moderna (II),
Il Mulino 1961, p. 147 e segg.
C. IZZO, Storia della letteratura inglese (II),
Nuova Accademia 1963, p. 331 e segg.
 

Il romanticismo inglese ha una indubbia autonomia di origine rispetto a quello tedesco. Già nella seconda metà del ’700 la presenza di una sensibilità nuova si era manifestata con la poesia allucinata di W. Blake (poeta, pittore, incisore: 1757-1827), con l’ossianesimo (la pubblicazione dei Canti da parte di McPherson è del 1760), con la poesia sepolcrale (E. Young: Le notti, 1742-1745; T. Gray: Elegy written in a country churchyard, 1751), con il romanzo gotico (H. Walpole: The castle of Otranto, 1764; A. Radcliffe: The mysteries of Udolpho, 1794; M. G. Lewis: The monk, 1795) e soprattutto con le teorizzazioni di E. Burke (nella Indagine filosofica sull’origine delle nostre idee del sublime e del bello, 1756, sostiene, oltre al primato della spontaneità creativa dell’io, l’interesse dei temi malinconici od orridi: se l’origine del bello è nel piacere, quella del sublime è nel dolore e nel terrore, che provocano una sorta di “delightful horror”, ovvero un dilettoso, piacevole orrore).

In secondo luogo, l’opera della cosiddetta prima ondata (o generazione) romantica (Wordsworth, Coleridge, Southey), è parallela, se non precedente, al movimento promosso in Germania dagli uomini di Athenaeum: la prima edizione delle Lyrical Ballads è infatti del 1798 (comprendeva poesie di Coleridge, fra cui The Rime of the Ancyente Marinere; e di Wordsworth, fra cui Lines written a few miles above Tintern Abbey); e la prefazione di Wordsworth alla seconda edizione (indicata come il manifesto del romanticismo inglese[1]) è del 1800. Del resto, a ribadire una sorta di primogenitura inglese, proprio A. W. Schlegel aveva salutato in Shakespeare il massimo genio poetico dei popoli germanici (ed un romantico ante litteram); ed Herder aveva indicato nei poemi di Ossian un modello di Naturpoesie (poesia naturale-primitiva).

Soltanto in un secondo tempo arrivarono le idee dei tedeschi: Coleridge lesse Schlegel e, nel 1811, tenne delle conferenze sulla distinzione fra classicismo e romanticismo; ma, soprattutto, nel 1813, venne pubblicato in Inghilterra (proprio a seguito della censura che aveva subito in Francia) De l’Allemagne della De Staël; ed è a questa fase che appartengono gli aspetti eroico-titanici, propri della cosiddetta seconda generazione romantica (Byron, Shelley, Keats).

A differenza della seconda generazione, la prima (detta anche, dei “poeti laghisti”, perchè amarono risiedere ed ispirarsi alla natura del Nord-Ovest dell’Inghilterra, la regione dei laghi del Cumberland) predilige il culto della natura, della vita e del linguaggio semplici (segnatamente in Wordsworth), o il gusto per il leggendario e il fiabesco (evidente in Coleridge).

E’ da segnalare che, in ogni sua forma ed espressione, mancò completamente al romanticismo inglese quel carattere di esaltazione delle stirpi germaniche che invece caratterizzò il romanticismo tedesco; di più, se in altri paesi (si pensi all’Italia), in nome degli ideali di libertà e di nazione, la poesia si caricò di contenuti e messaggi politici, in Inghilterra il romanticismo si caratterizza per un progressivo distacco dalle responsabilità civili, per una chiusura del poeta in se stesso (e questo è vero anche per un “libertario” come Byron, che ha, appunto, della libertà un’idea “titanica”, e quindi, per definizione, refrattaria a determinazioni storico-concrete; e infatti nella sua opera c’è più orgoglioso ed ostentato rifiuto del conformismo volgare che impegno morale e civile).

Si può anche dire che, mentre in Italia la cultura romantica fiancheggia e sostiene il progetto di sviluppo della borghesia più consapevole, quella lombardo-veneta (sul piano politico, perché l’ideale nazionale, sostenuto dai romantici, è funzionale agli interessi della borghesia, che ha bisogno, per potersi espandere, della eliminazione sia delle barriere doganali che della “tutela” austriaca; e sul piano economico, perchè nel Conciliatore si indica esplicitamente la industrializzazione inglese come modello da imitare), in Inghilterra, dove già si sono visti gli effetti negativi della rivoluzione industriale (super-sfruttamento, inquinamento, mercificazione dei rapporti umani), il romanticismo (con la sua valorizzazione della semplicità naturale, della campagna contro la città) si pone come cultura d’opposizione allo sviluppo capitalistico.




[1]Vi si sostiene che la poesia dev’essere  spontaneo traboccare di sentimenti potenti ”, deve sbarazzarsi della “poetic diction ” (ovvero, del linguaggio artificiale, letterario, retorico) per adottare un linguaggio semplice e naturale (d’uso, del popolo); anche se poi deve ammettere che quello poetico è sempre un linguaggio artificiale (quindi la polemica è contro l’eccessiva letterarietà di poeti del ’700 come Dryden e Pope; ed implica il recupero di poeti sentimentalmente appassionati, anche se non “semplici” e “naturali”, quali Shakespeare e Milton).

Caratteri del romanticismo


Sul romanticismo

  

M. PUPPO, Il romanticismo,
Ed. Studium 1975, pp. 11-48.

 
1) Se ne parla dal punto di vista letterario (come reazione alla tradizione classicista che risale al Rinascimento)[1]; dal punto di vista filosofico (come reazione all’illuminismo: idealismo); dal punto di vista etnico-nazionalistico (rivolta dello spirito germanico contro lo spirito latino). Quanto al modo di intenderlo, c’è chi lo ritiene una categoria dello spirito (Croce: romanticismo è il momento passionale di ogni opera d’arte, laddove il classicismo è il momento formale: la vera arte è sintesi dei due momenti, e quindi reperibile in qualsiasi epoca); e c'è chi lo ritiene un momento storico (e in tal caso, c’è chi lo restringe al movimento culturale che si richiama a questo nome nella 1ª metà del 1800, e chi, come M. Praz, lo collega a un mutamento della sensibilità avvenuto alla fine del 1700 e vivo ancor oggi).

2) Certo, non si può non partire dalla crisi dell’illuminismo: se è la rivoluzione francese la realizzazione pratica delle promesse della ragione illuminista, essa, col suo bagno di sangue e con la sua appendice napoleonica, non può che apparire un fallimento; e del resto, questa sfrenata esaltazione della ragione lascia dei vuoti, non  soddisfa dei bisogni (di tipo metafisico, religioso) che pure persistono (vedi Foscolo: bisogni di tipo sentimentale). D’altra parte, già all’interno dell’illuminismo nascono le tendenze anti-illuministiche: in tal senso va vista la valorizzazione del sentimento e dello stato di natura in Rousseau: non potenziando la ragione, ma tornando verso il mondo degli impulsi primitivi (dei sentimenti naturali) si trova la felicità (e del resto in Rousseau si trova anche la valorizzazione dell’amore come sublime passione che nega e supera ogni razionalità; cosiccome il gusto della confessione, ovvero della considerazione privilegiata del proprio io)[2].

3) Dal punto di vista filosofico, se Kant aveva ancora mantenuto una barriera invalicabile fra soggetto e oggetto (oltre il fenomeno c’è pur sempre il noumeno), con l’idealismo l’oggetto non è più sentito estraneo al soggetto, ma partecipe della stessa natura spirituale (Fichte: l’io è spirito invisibile, la Natura è spirito visibile)[3]. Proprio l’idea di Fichte di un distacco iniziale della natura dallo spirito, del non-io dall’io (distacco che deve essere colmato riconoscendo nella natura non una realtà estranea, ma un prodotto dello spirito stesso) corrisponde allo stato d’animo romantico che sente, malinconicamente, la perdita dell’armonia originaria, a seguito della frattura fra materia e spirito, finito e infinito, realtà e desiderio.

4) Il sentimento è l’entità evocata per recuperare questa armonia; ma di sentimento si può parlare in due modi: alla “latina” (che sarebbe il modo di Rousseau,  ma anche dello Sturm und Drang: sentimento come passione, istinto primitivo e selvaggio, non controllato dalla ragione, proprio di quella Naturpoesie che Herder esalta, distinguendola dalla Kunstpoesie); e alla “tedesca” (che sarebbe il modo di Schiller, che distingue fra poesia ingenua e poesia sentimentale: la prima nasce da un contatto immediato e spontaneo con la natura, mentre la seconda cerca di ritrovare quella perduta armonia per mezzo della cultura e della riflessione; quindi è un sentimento che non prescinde dalla filosofia, anzi la implica; del resto, come dice Novalis, “il pensiero è soltanto un sogno del sentimento"; su questa linea sarà il “latino” Leopardi).

5) Ma l’armonia è in definitiva sempre irraggiungibile: di qui la Sehnsucht, o “aspirazione struggente” (si oppone a Stille, o “serenità, quiete”); di qui l’evasione verso altri mondi, del passato (il medioevo per Novalis, come per Brentano e Von Arnim, che raccolgono favole o canti della tradizione medievale germanica) o lontani, esotici (René di Chateaubriand se ne va fra la natura vergine dell’America del Nord; Hölderlin evoca l’Ellade antica).

6) Nuova la concezione della natura: non più quel meccanismo retto da leggi immutabili, estraneo alla vita dell’uomo, prospettato dalla scienza galileiana; ma organismo vivente con cui lo spirito dell’uomo è in continua comunione, di più, in cui riconosce se stesso (c’è una sorta di religiosità panteistica in tutto ciò): secondo Novalis, colui che sollevò il velo della dea di Sais (simbolo della natura) “vide, miracolo del miracolo, se stesso [4].

7) L’arte, quindi, sia viene sentita come il modo per risolvere le antinomie, per ristabilire quell’armonia col cosmo cui “struggentemente” si “aspira”, per realizzare quella libertà che il mondo reale continuamente nega; sia viene ritenuta lo strumento conoscitivo per eccellenza (in opposizione alla scienza sperimentale), che consente di attingere l’assoluto (per la via mistico-intuitiva che solo all’artista è concessa).

8) Un tema centrale è quello dell’amore: in quanto esperienza irrazionale, fortemente sentimentale, evoca un mondo diverso, di unione mistica col tutto, aspira a superare i limiti che necessariamente il reale pone: e quindi aspira a realizzarsi nella morte.



[1]E’ un’affermazione di libertà espressiva, contro le regole classiche (siano esse quelle pseudo-aristoteliche del dramma, sia l’uso della mitologia in poesia, o siano gli schemi metrici convenzionali).
[2]E’ un atteggiamento che va nel senso di quell’individualismo (esasperato fino al titanismo: si pensi ad Alfieri) tipicamente romantico.
[3]Si può dire che, se per Kant l’io è il legislatore della realtà, per l’idealismo l’io ne è il creatore: la realtà è idea, idea pensata; conoscere è quindi creare (la cosa può sembrare strana, perché nell’atto della conoscenza si ha la coscienza di essere passivi, e non “creatori”; ma si dice che la “creazione”, inconscia nei singoli, è attuata dall’io universale, lo Spirito, la mente unica, che pensa attraverso i singoli).
[4]“Er sah, Wunder des Wunders, sich selbst”: così ne I discepoli di Sais (romanzo che narra come nella leggendaria scuola egiziana di Sais si cercasse di scoprire il segreto della natura, che secondo il mito doveva celarsi dietro il velo della dea di Sais).