Anche
per Lucrezio si guarisce grazie alla naturae
species ratioque
1) Questo insistere sulla necessità della ricerca
scientifica per liberare l’uomo dall’illusione religiosa, per guarirlo da
quella nevrosi collettiva, non può non ricordare Lucrezio, il quale
naturalmente non parla di nevrosi, ma ugualmente ritiene che la mente
dell’uomo, ottenebrata e spaventata dalle credenze religiose, possa e debba
essere liberata tramite la conoscenza scientifica. In latino l’espressione,
usata più volte, è naturae
species ratioque; è un’endiadi (en – dià – dioin,
uno attraverso due, un concetto attraverso due parole) dove species
– che ha la stessa radice di spectare,
guardare, speculare, studiare –
significa appunto “osservazione”, “studio” e ratio significa
“ragione”, “razionalità”; dunque l’espressione naturae species ratioque
si può tradurre come “osservazione razionale,
o studio scientifico, della natura”.
2) E’ lo stesso maestro, Epicuro, che ha insegnato
che questa è la strada, lui che, “mentre la vita umana giaceva oppressa dal
grave peso della religione, che incombeva dall’alto del cielo col suo orribile
aspetto”, “per primo osò sollevare gli occhi contro la religione” (primum Graius homo mortalis tollere contra /
est oculos ausus) e non lo spaventarono “la fama degli dei, né i fulmini,
né il minaccioso brontolio del cielo” (neque
fama deum, nec fulmina, nec minitanti / murmure compressit caelum) (I, vv.
62-69).
Noi
come fanciulli, per Lucrezio come per Freud
3) E infatti noi,
scrive Lucrezio, siamo come
fanciulli che al buio hanno paura immaginando minacce che non esistono;
come loro noi, pur essendo alla luce, “temiamo
cose che non sono più paurose di quelle che spaventano i fanciulli al buio”
(III, vv. 97-90). Un paragone, questo, fra le paure dei fanciulli e quelle
degli adulti, che non può non ricordare l’idea di Freud secondo cui con la religione si rinnova negli adulti il
rapporto nevrotico avuto con il padre da fanciulli. E come Freud
indicava nel “rafforzamento dello spirito
scientifico” la terapia in grado di liberare dalla suddetta nevrosi, così
scrive Lucrezio:
hunc igitur terrorem animi tenebrasque necessest
non radii solis nec lucida tela diei
discutiant, sed naturae
species ratioque. (III, vv. 91-93)
“Questo terrore dell’animo, dunque, e queste tenebre occorre che siano dissipate non dai raggi del sole né dai lucenti dardi del giorno, ma dallo studio scientifico della natura”
Empietà della religione: il sacrificio di Ifigenia e degli animali
4) Per Lucrezio la religione è prima di tutto
empia, in quanto in suo nome si compiono sacrifici
umani; e qui, in un bellissimo passo, il poeta rievoca il sacrificio di Ifigenia, la
figlia di Agamennone, che venne immolata sull’altare perché gli dei favorissero
il viaggio della flotta, che partiva alla volta di Troia; durissimo il
verso con cui si conclude la narrazione della vicenda: Tantum religio potuit suadere malorum,
a tanto male potè indurre la religione (I, vv. 84-101).
5) Ma orribili
sono anche i sacrifici degli animali, per i quali Lucrezio dimostra una sensibilità
più unica che rara nella poesia dell’antichità: è indimenticabile il
passo in cui è rappresentato il dolore inconsolabile della madre che cerca
invano il vitello sgozzato davanti all’altare, “con lo sguardo cercando
ovunque (omnia convisens oculis loca), se possa in un luogo scorgere il figlio perduto (si queat usquam conspicere amissum fetum), si ferma e riempie di tristi muggiti il bosco
frondoso (completque querellis frondiferum nemus adsistens), e spesso ritorna alla stalla, trafitta dal
desiderio del suo giovenco (et crebra revisit ad
stabulum desiderio perfixa iuvenci)” (II, vv. 355-360).
Gli dei non si interessano di noi, non c’è provvidenza
6)
Ma c’è un
argomento fondamentale per sostenere il carattere illusorio, fallace, della
religione. Gli dei, dice Lucrezio, abitano negli spazi tra i mondi, nei
cosiddetti intermundia, e vivono in condizioni di perfetta atarassia, ovvero di imperturbabilità, dunque non possono essere turbati dalle vicende umane, di cui non si interessano
in alcun modo; il che equivale a dire che, per noi uomini, è come se non esistessero.
7) Da questo consegue che non c’è una punizione
divina per gli uomini, in questa o in un’altra vita, ma nemmeno c’è per il mondo umano una provvidenza benevola (quella
prònoia
in cui credevano invece gli stoici). Scrive Lucrezio: “Quand’anche ignorassi
quali sono gli elementi costitutivi delle cose, per gli stessi fenomeni del
cielo e in base a molti altri fatti oserei affermare che non c’è stato un intervento divino che ha creato a nostro vantaggio
la natura del mondo: tanto grande è l’imperfezione che gli è connaturata”
(tanta
stat praedita culpa, letteralmente, fornita com’è la natura di così
grande colpa) (II, vv. 177-181; V, vv. 195-199).
La natura matrigna e il lugubre vagito
8) Segue un elenco dei mali del mondo che ci fanno
pensare alla concezione leopardiana
della natura matrigna, tanto che, conclude Lucrezio, come un naufrago sbattuto sulla spiaggia
dalle onde del mare, un bambino che nasce “giace nudo a terra, incapace
di parlare, bisognoso di ogni aiuto per sopravvivere, e riempie il luogo di un lugubre vagito, come si addice a chi nella
vita dovrà passare per tanti malanni (ut
aecumst / cui tantum in vita restet transire malorum)” (V, vv. 222-227).
Un lugubre vagito: notate
l’ossimoro fra il vagito che
è proprio del neonato e dunque richiama la nascita, e l’aggettivo lugubre, che invece è funereo e
richiama la morte.
Eros: il sesso
come bisogno e il piacere “in quiete”
9) Veniamo ora alla questione del rapporto fra Eros (la
pulsione sessuale, ovvero la pulsione di vita) e Thanatos (la pulsione aggressiva e distruttiva, ovvero la
pulsione di morte).
10) Quello che Lucrezio pensa dell’amore e della
pulsione sessuale è coerente con la dottrina epicurea: la sessualità è una
necessità, in quanto ha a che fare con la riproduzione della vita, ed è
anche un bisogno naturale che va
soddisfatto, come il mangiare, il bere, il dormire. Ciò che va assolutamente evitato è il
coinvolgimento passionale, noi diremmo l’innamoramento, in quanto fonte di grande turbamento, di
dolore e di angoscia. Per l’etica epicurea infatti ciò che ci si deve proporre è il piacere (hedoné in greco, voluptas
in latino), ma il piacere di cui si parla è il cosiddetto piacere “catastematico”, ovvero statico, “in
quiete”, definito come assenza del dolore (aponia)
e mancanza di turbamento (atarassia)[1]; è un
piacere che si distingue dal cosiddetto
piacere “cinetico”, ovvero dinamico, che è il piacere dei dissoluti e di chi insegue onori e ricchezze, un
piacere che genera inquietudine,
turbamento, sofferenza. E tale è
anche il piacere generato dall’amore passionale.
11) Evito di riportare i versi in cui, in
maniera crudamente realistica, è descritta la fisiologia dell’atto sessuale,
sempre insistendo sulla necessità di
soddisfare un bisogno e di evitare il coinvolgimento passionale. Per
cui ecco la conclusione: “Non perde i frutti di Venere chi evita l’amore
(nel senso dell’innamoramento), ma piuttosto coglie i piaceri che sono
senza pena. Di certo il piacere per gli uomini assennati è più puro di
quello degli infelici amanti” (IV, vv. 1073-1076).
Thanatos: non
pulsione di morte, ma pensiero angosciante
12)
Quanto a Thanatos, la morte, è un motivo
fondamentale nel poema di Lucrezio, ma non
nel senso di una pulsione di morte come abbiamo visto in Freud, bensì nel senso di un pensiero angosciante,
fonte di grande turbamento, in definitiva, madre di tutte le paure. E’
un’angoscia da cui ci si può e ci si deve liberare tramite la conoscenza
scientifica della natura (la naturae species ratioque).
[1] E’ una concezione che
ricorda il pensiero di Freud quando
identifica il principio del piacere con il cosiddetto principio del Nirvana,
che consiste nella tendenza a ridurre o eliminare ogni tensione prodotta da
stimoli, interni o esterni (analogamente a ciò che il Nirvana indica nel
buddismo, ovvero la cessazione del dolore in conseguenza dell’annullamento del
desiderio).
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