Il disastro politico e morale dell’Italia
9)
Quanto al disastro politico e morale
dell’Italia, la risposta la dà Dante stesso nel canto VI del Purgatorio quando,
avendo assistito all’abbraccio affettuoso,
nell’aldilà, fra le anime di due concittadini, Sordello e Virgilio, pensa
alla situazione nell’Italia a lui contemporanea, dove “non stanno senza guerra / li vivi
tuoi, e l’un l’altro si rode / di quei ch’un muro ed una fossa serra”,
e cioè si combattono fra di loro non solo gli italiani dei diversi territori,
ma gli abitanti di una stessa città; quindi esclama:
Ahi
serva Italia, di dolore ostello,
nave
sanza nocchiere in gran tempesta,
non
donna di provincie, ma bordello!
Quell’anima
gentil fu così presta,
sol
per lo dolce suon de la sua terra,
di
fare al cittadin suo quivi festa;
e
ora in te non stanno sanza guerra
li
vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
di
quei ch’un muro e una fossa serra.
Cerca,
misera, intorno da le prode
le
tue marine, e poi ti guarda in seno,
s’alcuna
parte in te di pace gode.
Che
val perché ti racconciasse il freno
Iustinïano, se la sella è
vòta? (riordinò tutte le leggi romane nel
Corpus iuris civilis)
Sanz’esso
fora la vergogna meno.
Ahi
gente che dovresti esser devota,
e
lasciar seder Cesare in la sella,
se
bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda
come esta fiera è fatta fella
per
non esser corretta da li sproni,
poi
che ponesti mano a la predella. (la parte della briglia attaccata al morso)
O
Alberto tedesco ch’abbandoni (d’Austria, eletto imperatore nel 1298, non
venne mai in Italia)
costei
ch’è fatta indomita e selvaggia,
e
dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio
da le stelle caggia
sovra ’l tuo
sangue, e sia novo e aperto, (lo stesso
Alberto fu ucciso e suo figlio Rodolfo morì prematuramente)
tal
che ’l tuo successor temenza
n’aggia! (riferimento ad Enrico VII di
Lussemburgo, che 1310 scese in Italia, ma morì qualche anno dopo)
Ch’avete
tu e ’l tuo padre sofferto, (Rodolfo d’Asburgo)
per
cupidigia di costà distretti, (dei possedimenti in Germania)
che ’l giardin de lo ’mperio sia diserto.
10)
Qui l’accusa è agli uomini di Chiesa –
non è nominato specificamente il Papa – ma l’accusa
più dura e nominativa è all’Imperatore che viene meno al suo dovere di
far valere ovunque quel potere temporale che gli è stato affidato direttamente
da Dio.
La
donazione di Costantino. Contro Bonifacio VIII
11)
Il potere temporale esercitato
abusivamente dal Papa mette in campo la famosa questione della donazione di Costantino. Era questo l’atto,
ritenuto autentico, con cui l’imperatore Costantino, al momento di
trasferire la sua sede a Bisanzio,
avrebbe donato al papa Silvestro I,
in segno di gratitudine per averlo guarito dalla lebbra, la giurisdizione su Roma.
Quell’atto era un falso, come dimostrò Lorenzo
Valla nel 1400 con una accurata analisi filologica. Ma nell’età di
Dante non se ne metteva in dubbio l’autenticità. E Dante più volte indica in quell’atto l’inizio della degenerazione della
Chiesa.
12)
Nella bolgia dei simoniaci (sono coloro che hanno approfittato della
propria carica religiosa per trarre guadagno economico), Dante si avvicina alla
buca dove è infilato a testa in giù il papa Nicolò III.[1]
Nella buca, sotto Nicolò, ci stanno altri papi e costui, al sentire la voce di
Dante, crede che sia arrivato papa
Bonifacio VIII a farlo cadere di sotto e sostituirlo nella buca. In
realtà Bonifacio VIII era ancora vivo e Dante
autore, con questa trovata, ne approfitta per profetizzare la
dannazione per quel papa. E Dante
personaggio, chiarito l’equivoco, rivolto a Nicolò III si lancia in
una dura requisitoria contro il peccato di simonia, quindi conclude (Inf.
XIX, 112-117):
Fatto
v’avete dio d’oro e d’argento;
e
che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli
uno, e voi ne orate cento? (voi adorate
ogni oggetto prezioso, mentre l’idolatra uno solo – con allusione forse al vitello d’oro, adorato
dagli ebrei durante l’esodo)
Ahi, Costantin,
di quanto mal fu matre,
non la tua
conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!".
La donazione di Costantino. La visione nel Paradiso terrestre
13)
Ma ancora la donazione di Costantino
come origine della corruzione della Chiesa è rappresentata nella visione cui Dante, in presenza di Beatrice,
assiste nel Paradiso terrestre. C’è un carro
che rappresenta la Chiesa e c’è un’aquila,
che rappresenta l’Impero, che dapprima colpisce violentemente il carro
(e questo indica le persecuzioni che la Chiesa dovette subire nei primi tempi
da parte dell’Impero), ma successivamente l’aquila ritorna (Pg. XXXII, 124-129):
Poscia
per indi ond’era pria venuta,
l’aguglia
vidi scender giù ne l’arca
del
carro e lasciar lei di sé pennuta;
e
qual esce di cuor che si rammarca,
tal
voce uscì del cielo e cotal disse:
"O navicella mia, com’ mal se’ carca!".
14)
Quelle penne lasciate dall’aquila
rappresentano appunto la donazione di Costantino, per cui la voce di Dio che
proviene dal cielo se ne lamenta. E infatti, nella
visione che continua, quelle penne determinano una trasformazione mostruosa del
carro-Chiesa, finchè compare all’interno del carro quella che Dante chiama “una
puttana sciolta”, cioè sfrontata,
senza ritegno (rappresenta la curia
romana corrotta), quindi accanto a lei compare un gigante (da identificare con il re di Francia, Filippo il Bello) con il quale “basciavansi
insieme alcuna volta”; infine il gigante porta via con sé il carro e la
“puttana” (e questo certamente allude
al trasferimento della sede papale ad
Avignone, ottenuto da Filippo il Bello nel 1305, essendo papa Clemente V).
[1] I simoniaci
guardarono solo ai beni della terra invece che a quelli del cielo; ora nella
terra sono conficcati e al cielo rivolgono i piedi, sui quali brilla una fiamma
come “un’aureola a rovescio”.
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