VI. Qui ubi primum adolevit, pollens viribus, decora facie, sed multo maxime ingenio validus, non se luxu neque inertiae   corrumpendum dedit, sed, uti mos   gentis illius est, equitare, iaculari; cursu cum aequalibus   certare et, cum omnis gloria anteiret, omnibus tamen carus esse; ad hoc pleraque  tempora in venando agere, leonem   atque alias feras primus aut in primis ferire: plurimum   facere, [et] minimum ipse de se loqui. Quibus rebus Micipsa tametsi initio laetus fuerat, existimans virtutem Iugurthae regno suo gloriae fore, tamen, postquam hominem adulescentem exacta sua aetate et parvis   liberis magis magisque crescere intellegit, vehementer eo negotio permotus multa cum animo suo volvebat. Terrebat eum natura mortalium auida imperi et praeceps ad explendam animi cupidinem, praeterea opportunitas suae liberorumque aetatis, quae etiam mediocris viros spe praedae   transversos agit, ad hoc  studia Numidarum in Iugurtham   accensa, ex quibus, si talem virum dolis   interfecisset, ne qua seditio  aut bellum oriretur, anxius erat.
LXIII.  Per idem tempus Uticae forte C. Mario  per hostias dis  supplicanti magna atque mirabilia portendi haruspex dixerat: proinde quae animo agitabat, fretus dis ageret,   fortunam quam saepissime experiretur; concta prospere eventura. At illum iam antea   consulatus ingens cupido exagitabat, ad quem capiendum praeter vetustatem familiae alia omnia abunde erant: industria, probitas, militiae magna scientia, animus  belli ingens domi modicus,   libidinis et divitiarum victor, tantummodo gloriae auidus. Sed is   natus et omnem pueritiam Arpini altus, ubi primum aetas   militiae patiens fuit, stipendiis faciendis, non Graeca facundia neque urbanis munditiis sese exercuit: ita inter artis   bonas integrum ingenium brevi adolevit. Ergo, ubi primum tribunatum   militarem a populo petit,   plerisque faciem eius ignorantibus, facile factis   notus per omnis tribus declaratur. Deinde ab eo   magistratu alium, post alium sibi peperit,   semperque in potestatibus   eo modo agitabat, ut ampliore quam   gerebat dignus haberetur. Tamen is ad id locorum talis vir--nam postea   ambitione praeceps datus est--consulatum   appetere non audebat. Etiam tum alios   magistratus plebs, consulatum   nobilitas inter se per manus   tradebat. Novos nemo tam clarus neque tam egregiis factis erat, quin indignus illo honore et is quasi pollutus haberetur.
LXIV.  Igitur   ubi Marius haruspicis dicta eodem intendere videt, quo  cupido animi hortabatur, ab   Metello petendi gratia missionem rogat. Cui quamquam virtus, gloria atque alia optanda bonis superabant, tamen inerat contemptor animus et superbia, commune nobilitatis malum. Itaque primum commotus insolita re, mirari eius consilium   et quasi per amicitiam monere, ne tam prava inciperet neu super fortunam animum gereret: non omnia omnibus cupienda  esse, debere illi res suas satis   placere; postremo caveret   id petere a populo Romano, quod illi iure negaretur. Postquam haec atque alia talia  dixit neque animus Mari flectitur,   respondit, ubi primum potuisset per negotia publica, facturum sese quae peteret. Ac postea saepius   eadem postulanti fertur dixisse, ne festinaret abire: satis mature illum cum filio  suo consulatum petiturum.   Is eo tempore contubernio patris ibidem militabat. Annos natus circiter viginti. Quae res Marium cum  pro honore, quem affectabat, tum contra Metellum vehementer accenderat. Ita cupidine atque ira, pessimis consultoribus, grassari; neque facto ullo neque dicto   abstinere, quod modo ambitiosum foret; milites, quibus in hibernis praeerat, laxiore imperio quam antea habere; apud negotiatores, quorum magna   multitudo Vticae erat, criminose simul et magnifice de bello loqui: dimidia pars exercitus si sibi permitteretur, paucis diebus Iugurtham in catenis habiturum; ab imperatore consulto trahi, quod homo inanis et regiae superbiae  imperio nimis gauderet. Quae omnia illis eo firmiora videbantur,   quia diuturnitate belli res familiaris corruperant et animo cupienti nihil satis festinatur.
Traduzione
VI. Costui, appena fu adolescente, forte fisicamente, di bell'aspetto, ma  soprattutto ragguardevole per intelligenza, non si lasciò corrompere dai  piaceri e dall'ozio, ma, come è uso della sua gente, cavalcava, lanciava il  giavellotto, gareggiava con i coetanei nella corsa: e, benchè  eccellesse su tutti per fama, a tutti, nondimeno, era caro. Dedicava,  inoltre, la maggior parte del suo tempo alla caccia, era il primo o fra i  primi a colpire il leone e le altre fiere: quanto più agiva, tanto meno  parlava di sè.    Dapprima Micipsa, anche se era stato lieto  di tutto questo, pensando che il valore di Giugurta  sarebbe sarebbe stato (motivo) di onore al suo  regno, tuttavia, quando si rese conto che (il prestigio di) quel giovane  aumentava sempre più, mentre la sua vita era ormai compiuta e i suoi figli  erano ancora piccoli, preoccupato fortemente per tale fatto, rivolgeva nella  sua mente molti pensieri. Lo atterriva la natura umana, avida di potere e  pronta a soddisfare le proprie passioni, e inoltre l'opportunità della sua  età e di quella dei suoi figli, la quale è capace di traviare, con la speranza  del successo, anche gli uomini mediocri; lo atterriva, infine, l’intenso  affetto per Giugurta dei Numidi, da parte dei quali  temeva che sorgesse una rivolta o una guerra (civile), se avesse ucciso con  l'inganno un tale uomo.
LXIII. In quello stesso periodo, per caso a Gaio Mario, che in Utica offriva un sacrificio agli dei, l'aruspice aveva  comunicato che si annunziavano per lui grandi e meravigliosi eventi: agisse  dunque secondo l’ispirazione dell’animo, confidando nell'aiuto degli dei e  tentasse la fortuna molte volte; tutto gli sarebbe riuscito nel migliore dei  modi. Veramente già da tempo Mario era divorato dall'ambizione di diventare  console e, tranne l’antichità della stirpe, possedeva tutte le doti  necessarie a ricoprire tale carica: energia, rettitudine, grande esperienza  militare e un animo indomito in guerra, equilibrato in pace, capace di  dominare le tentazioni dei sensi e della ricchezza, avido soltanto di gloria.  Nato ad Arpino e lì cresciuto per tutta la sua fanciullezza, appena fu in età  di portare le armi, si dedicò alla carriera militare, noncurante di eloquenza  greca e di raffinatezze cittadine: così, fra quelle sane occupazioni il suo  carattere integro maturò in breve tempo. Perciò quando presentò al popolo la  propria candidatura al tribunato militare, benchè  ai più fosse ignoto il suo aspetto, la sua sola reputazione fu sufficiente a  procurargli il voto di tutte le tribù. Quindi egli ottenne una carica dietro  l'altra e ogni volta esercitava la magistratura in modo tale, da essere considerato  meritevole di rivestirne un'altra più importante. Eppure un uomo così  eccezionale fino a quel momento - più tardi fu rovinato dall'ambizione - non  osava aspirare al consolato. Era ancora il tempo in cui la plebe poteva  ottenere le altre cariche, ma il consolato la nobiltà se lo passava al suo  interno di mano in mano. Non c'era "uomo nuovo", per quanto  illustre e di alti meriti, che non venisse considerato indegno di quell'onore  e questo (onore) quasi contaminato.
LXIV. Mario, vedendo allora che le parole dell'aruspice tendevano a  quello stesso obiettivo cui lo spingeva la sua ambizione, chiede a Metello il congedo per presentarsi candidato. Ma Metello, che pure era uomo straordinariamente ricco di  coraggio, di amor di gloria e di altre doti care agli onesti, aveva però un  carattere arrogante e peccava di superbia, male comune della nobiltà.  Sorpreso, dapprima, dall'insolita richiesta, si meravigliò del suo proposito  e quasi a titolo di amicizia lo invitò a desistere da un progetto così  malaccorto e a non coltivare ambizioni superiori alla sua condizione.  Aggiungeva che non tutto è alla portata di tutti: Mario poteva essere pago  del suo stato e doveva insomma guardarsi dal richiedere al popolo romano ciò  che a buon diritto gli sarebbe stato negato.    Poichè con queste e altre affermazioni  simili non riuscì a piegare la volontà di Mario, gli rispose che avrebbe  soddisfatto la sua richiesta non appena le esigenze di servizio glielo  avessero permesso. Poi, di fronte alle insistenze di Mario, si dice che gli  consigliò di non aver fretta di partire, perchè  sarebbe già stato abbastanza presto per lui chiedere il consolato insieme a  suo figlio, il quale prestava allora servizio militare al seguito del padre e  aveva circa vent'anni. Questa risposta aveva maggiormente rinfocolato in  Mario sia il desiderio della carica cui aspirava sia il risentimento contro Metello. Perciò le sue azioni si ispiravano a due pessime  consigliere: l'ambizione e la collera. Non tralasciava alcun gesto o alcuna  parola, purchè potesse procurargli favore. Trattava  i soldati ai suoi ordini nei quartieri invernali con disciplina meno severa  rispetto a prima e con i mercanti, presenti in gran numero a Utica, parlava della guerra muovendo critiche e facendo  grandi promesse. Diceva che se gli fosse stata data soltanto una metà  dell'esercito, in pochi giorni avrebbe avuto Giugurta  in catene. Il comandante, invece, protraeva a bella a posta la guerra, perchè, uomo vano e superbo come un re, si compiaceva  troppo dell'esercizio del potere. Tutte queste critiche parevano loro tanto  più fondate, in quanto la lunga durata della guerra aveva danneggiato i loro  interessi e per chi è impaziente non si fa mai presto abbastanza.
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